Ecco alcuni miei scarabocchi sull’altrui travaglio. Da qualche anno infatti sono corrispondente di Nerds Attack!, valente webzine capitolina che mi spedisce su e giù a recensir concerti. Io mi diverto un sacco. Qui sotto un poco dei miei articoli pubblicati, random. Enjoy.

 

Giovanni Lindo Ferretti live report/ Enrico Farnedi live report/ The (Patti) Smiths live report/ Santo Barbaro live report/ Timber Timbre + Last Ex live report/ Marlene Kuntz live report/ Savages live report/ Portishead + Savages live report/ Bachi Da Pietra + Santo Barbaro live report/ Peter Hook & The Light live report/ Ennio Morricone live report/ Morrissey live report/ Dente + Amycanbe live report/ dEUS live report/ Codeine live report/ Il Pan Del Diavolo live report/ Coro delle Mondine di Novi e Barabba live report/ Fluon live report/ Betti Barsantini live report/ Andre Williams live reportBalmorhea live report/ Daniele Maggioli recensioneDimartino + Dany Greggio live reportEnrico Farnedi live reportFormazione Minima recensioneGuido Maria Grillo recensioneHugo Race and the Fatalists live report/Joan as Police Woman + Vasi & Meinier live reportMassimo Marches recensioneMatt Elliott + Oly Ralfe live reportMauro Ermanno Giovanardi + Cesare Malfatti live reportMercury Rev live reportMondo Cane live reportOne Dimensional Man live reportPaolo Conte live reportSanto Barbaro recensioneYann Tiersen + Lonski & Claßen live report

 

GIOVANNI LINDO FERRETTI
@ Auditorio Manzoni Bologna 8 Maggio 2015 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Comprai il 33 giri usato di ‘Affinità – divergenze’ da un ragazzo magrissimo e coi denti guasti millenni fa, per seimila lire, sotto i portici della vecchia pescheria di Rimini. Quello della Attack, su vinile rosso. Prima di quel pomeriggio avevo consumato per mesi con mio cugino una cassetta registrata. Lui rideva ogni volta che sentiva ‘Mi ami?’. Io mi perdevo ebbro nei giri di valzer di ‘Allarme’. Poi, molte stagioni dopo, fu la corsa verso un centro commerciale dove mi avevano detto esserci ancora copie di ‘Ko de Mondo’ in digipack. Il primo concerto della nuova creatura al Velvet. Il primo live acustico e inquieto al teatro nuovo di San Marino. E poi. E poi. E poi tutto il resto. Fino all’altro ieri. Fino alla fine della storia. Direttamente dall’inizio. Con tutto quello che c’è stato in mezzo. Anni. Decenni. Per arrivare a questa sera. Non avevo molte aspettative riguardo questo appuntamento, giuro. Mi figuravo un dolce, rispettabile revival di canzoni amate, sentimenti un poco sfioriti, polveri inumidite. E invece, che botta. Giovanni Lindo Ferretti e i sui 63 anni sono vigorosi e desti. Il sangue è ancora fertile. Insieme ai due Ustmamò Luca A. Rossi e Ezio Bonicelli che si alternano a bassi, chitarre e violini, ad alcune basi sintetiche e alla sua voce assesta sicuro numerosi proiettili salmodianti. E’ come imbonitore mistico, e vibra alto il suo giudizio. Per sé. Per gli altri. Per questi tempi aridi, perduti, decaduti, gettati via. Un saluto dal palco a Canali, che ho incrociato fuori dal teatro. Canali a detta di Ferretti unico e ultimo vero rocker italiano. Nessuna concessione a nessun abbellimento o parola superflua, seppur di cortesia o spiegazione, praticamente per tutto il resto del set. Solo sguardi in tralice, mani in tasca, parole nitide. E in fondo quando mai realmente altro di altrettanto prezioso. E in fondo a chi serve, stasera come tutte le altre, di sere. Su questo pianeta. In questo campo di profughi e sopravvissuti. In questa catacomba. La scaletta è una scorribanda che sconfina e attinge da tutto, o quasi, il sentiero artistico del nostro. Indipendentemente da i compagni di viaggio. ‘Annarella’. ‘Emilia paranoica’. ‘Occidente’. ‘Tomorrow’. ‘Cupe vampe’. ‘Del Mondo’. ‘Oh! Battagliero’. ‘Per me lo so’. ‘Tu menti’. ‘Radio Kabul’. ‘Canto eroico’. ‘Barbaro’. E molte altre, che non ricordo. Ricordo però la chiusura, con ‘Spara Jurij’ infuocata sul palco e un ragazzo dietro di me, invasato, che bestemmia esaltato e agita le braccia, quando oramai abbiamo lasciato tutti le poltroncine borghesi del Manzoni e ci siamo gettati come quindicenni ai piedi del palco. Lo sciamano che condanna e seduce. Accudendoci e sbranandoci come cuccioli. Ferretti ci scruta, con le braccia e gli occhi spalancati di puro spirito. E ride, appena un attimo prima di naufragare nel commiato. A cuor contento. Sul vertice del baratro. Che io, stasera, credo più nostro che suo. Felicitazioni. Felicitazioni. Felicitazioni. top

 

ENRICO FARNEDI
@ Vecchia Stazione Forlì 28 Febbraio 2015 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Cosa spinge da ormai diversi anni Enrico Farnedi, stimato trombettista di indiscusso valore e solido curriculum a dedicare energia, cuore e sangue a un progetto solista e leggiadro fatto di voce, ukulele, canzoni a metà tra il confidenziale da una parte e i fumetti, i cartoni animati dall’altra? Lo spirito del rock. Sissignore. Quello che puzza. Suda. Balla nella pancia. Sfiora e sussurra. Quello capace di tenerezze sublimi, delicatezze disarmanti, ma anche sana vitalità ludica e iconoclasta. Sfacciatamente. Naturalmente. Sempre attenti a non far scivolare troppo gli occhiali da vista dal naso però. Sempre vigili a quello che potrebbero dire il babbo e la mamma per come abbiamo conciato il salotto mentre erano fuori. E quale è il luogo preferito di Enrico per giocare? Ma le canzoni, che domande. In quelle scatole Enrico mette tutto il suo mondo. Fatto di legami titanici con amici e maestri. Affetti. Famiglia. Amore vero, sincero per i microcosmi di natura e provincia. Nostalgia e glorificazione del passato. Di persone e musiche, direttamente dai mondi che furono. E se ci avanza dello spazio, infiliamoci anche un poco di dubbi e incertezze da uomo moderno e spaesato. Nel cortile di casa come intorno alla metropoli. E’ un’infanzia senza data di scadenza sul barattolo. Da consumarsi a qualsiasi età. Enrico è negro nel cuore. E lo spirito del blues non lo abbandonerà mai. Porta con sé la nobiltà della sconfitta. Della vittoria. Della speranza. Della bellezza. Della visione. Quella di chi suonava le chitarre da dieci dollari in strada come quella di chi vestiva in tuxedo e impugnava fiati dorati nelle sale. Contemporaneamente. Complementare. Bipartisan. Spirito d’elezione e attenzione, il nostro Rico. Trombettista raffinato. Cantautore nudo. Amico presente e sfuggente di tutti. 

Farnedi questa sera è alla Vecchia Stazione di Forlì per suonarci e cantarci in anteprima nazionale il nuovo, vitaminico album ‘Auguri Alberta’, che fa il paio con l’esordio di qualche anno fa ‘Ho lasciato tutto acceso’. Nel mezzo tra i due lavori concerti (tanti), partecipazioni in compilations e tributi (belle) e una evidente mutazione della squadra che lo porta oggi a condividere il palco con amici e colleghi di talento. I fratelli Costa dei Quintorigo agli archi. Andrea Guerrini, Benny Petrolani e Francesco Valtieri ai fiati. Marco Bovi e Mauro Gazzoni alla sezione ritmica. Lorenzo Gasperoni alla chitarra. Riccardo Lolli alle tastiere. Massimiliano Morini dei Moro and the Silent Revolution ed Eloisa Atti ai cori, concertina e qualche shaker qua e là. Sul palco è una festa. La sala è gremita. Enrico è emozionato e lusingato. Le Canzoni per Alberta scorrono via che è una bellezza. C’è l’ironia sfacciata di ‘Nuovo nero’e ‘Agosto in Cerdanyola’. I giochi e i segreti della title track, ‘Melo’ e ‘Neve’. L’aria e le armonizzazioni fifties e sixties di ‘Respira bene’, ‘Fammi vedere’, ‘Rocchenròl’ e ‘La canzone dei pesci’. C’è ‘Vendemmia’, vecchio, prezioso e felice episodio qui riproposto in nuova veste. Infine la poesia spiazzante e cosmopolita di ‘Sul vulcano’, forse la mia favorita tra le nuove pallottole insieme allo smarrimento di ‘Vedrai che passa’. In mezzo, sopra e sotto le nuove storie fanno capolino in scaletta ‘L’ultima luna’ di Dalla e un pugno di pezzi dal primo album. Chiude le danze una versione corale in salsa mariachi di un’altra cover, ‘La casa’ di Endrigo. Ottimo set.

C’è sempre gioia, sogno, memoria e galante, schietta sincerità d’altri tempi nei racconti di Enrico. E un pizzico nemmeno troppo velato di malinconia e ricordo. Volti in trasparenza su fondo scuro. Foto incollate sulle pagine di cartoncino degli album di una volta, che intravediamo sotto il foglio di velina. Sappiamo già chi c’è, seminascosto là sotto. Sappiamo già come ci guarderanno, di chi sono quegli occhi. Auguri Alberta. Auguri Enrico. top

 

THE (PATTI) SMITHS
@ Teatro Novelli Rimini 3 Dicembre 2014 articolo pubblicato su Nerds Attack!

La storia, si sa, la scrivono i vincitori. E Patti Smith è da tempo tra quelli con la penna in mano. Ispirata e poetica business woman. Rosa e spina sbocciata nei ’70 e ai ’70 vicina. Spirito antico, vitale e sacerdotale. Spesso protagonista in trincea, a volte dalle retrovie. Comunque sia, sempre e comunque scaltra e talentuosa danzatrice di rango. Sopravvissuta ai molti, moltissimi che, nel bene e nel male altrui e loro, hanno strappato, rimasticato, rigurgitato la tradizione di freaks e doppiopetti della controcultura negli ultimi 40 e più anni. Spargendone poi i semi e le spore per un nuovo cosmo fatto di cinema, rock, poesia, fotografia, politica, società, altari, bassifondi, giardini rigogliosi e cimiteri. Utopico o meno, sarà proprio il mondo nuovo a venire a dircelo. Domani, forse. Per oggi siamo qui. In un teatro di provincia. Protetti e riscaldati, al calduccio. Seduti accanto lo spettro di Fellini che spesso ci busserà sulla spalle, stasera. Lontanissimi dalle lame prese davvero a caso pescando nel sacco della memoria tra Verlaine (Tom e Paul), Mapplethorpe, Rimbaud, Burroughs, Reed, Carroll, Morrison, Factory & Max’s Kansas, Dylan, Pasolini, Buckley, Stipe e bla, bla, bla. Son troppi, davvero troppi i luoghi e le persone lungo il cammino della nostra rock n’roll nigger. Ma son quelli i colpi che l’hanno forgiata. E che lei ci ricorda e riporta anche stasera, in qualche modo. 

Era bellissima, nella sua fiera gioventù metropolitana in bianco e nero, la signorina Smith. Di quelle bellezze aliene, spigolose e arroganti che non fanno prigionieri. Che si amano o detestano. Che rischiano di vincere più come icona per tribù di sorelle e figlie che come seduttrice di amanti. E difatti sono tantissime le donne in teatro stasera. Fedeli, riverenti. Dalla prima all’ultima fila. Chi a guardare la madre battagliera, chi a ricordare l’antica Giovanna d’Arco. E Patti da quel punto di vista non è più la musa di un tempo, davvero no. Ma i suoi occhi sono ancora gli stessi. E fulminano. Inchiodano. Rapiscono ancora senza fatica. Così come la sua voce. Felice, alta, indomita. Ancora, e per davvero. Un concerto bello e strano, quasi in famiglia. Per intenzione e nel reale senso della parola. Sul palco, dei tre musicisti due sono i figli Jesse Paris e Jackson, avuti da Fred ‘Sonic’ Smith degli MC5. E anche se non c’entra granchè, giusto per non farci mancar nulla, ricordiamoci pure che Jackson è stato sposato fino a l’altro ieri con Meg White. Alè. Il quarto elemento, oltre alla pianista e al chitarrista, è il diligente Tony Shanahan all’acustica e la baritona.

 Il set inizia con una stilettata che ci vince istantaneamente: ‘Dancing barefoot’. Subito è chiaro che sarà una serata grande, fatta di lirismo, ironia, spiriti sottili e gioia. Scherza spesso col pubblico Patti. Sorride. Saluta. Scruta la platea. Si prende in giro e mette tutti a suo agio. E poi via, a cavallo per ‘Redondo Beach’. Una intensissima ‘Birdland’. La dedica al nipote Frederick per la cover di ‘Beautiful boy’. E tutto scorre, perchè davvero “life is what happens to you while you’re busy making other plans”. ‘This is the girl’ per Amy Winehouse. Un’altra cover, ‘Blue Christmas’, questa volta non di Lennon ma Elvis. ‘Ghost dance’, da sempre probabilmente la mia favorita. Una densa ‘Pissing in the river’. Altri pezzi ancora poi, altre storie. Chiusura del concerto con una sempreverde ‘Because the night’, che anche in veste chiaroscura e semi acustica non fallisce. Il pubblico, invitato all’ammutinamento, ha lasciato le poltrone ed è quasi tutto a ridosso del palco. Saluti e baci. Bellissimo encore, con L’accoppiata ‘Banga/ People have the power’. Poi la fine, quella vera. Attendo tenace e paziente all’uscita. Riesco a strapparle qualche battuta e l’autografo su un paio di libri. Tutto molto veloce, non facile, fugace pur intenso. “Catturale lo sguardo” mi suggerisce Mauro, un caro amico. Lo diceva Modigliani. Certamente lei ha saccheggiato il mio. top

 

SANTO BARBARO
@ Vecchia Stazione Forlì 14 Novembre 2014 articolo pubblicato su Nerds Attack!

La prima volta che visitai Barcellona, in un pomeriggio di molti anni fa, la osservai a lungo dall’altezza di Parco Güell. Sembrava una pentola che bolle, di quelle col coperchio leggero ed acciaccato che rischia di essere disarcionato dal calore da un momento all’altro. Questo mi pareva, vista da lassù, Barcellona. I rumori smorzati ma distinti. Il caldo lontano ma percepibile. La vita distante ma pulsante. Il panorama di una città guardinga, ma desta e vegeta. Un vulcano in attesa. Non so perchè, mi ritorna in mente quel pomeriggio, questa sera. Sono a Forlì, alla Vecchia Stazione, in occasione del release party del nuovo album dei Santo Barbaro che guarda un po’, si intitola ‘Geografia di un corpo’. Lavoro urgente e deciso, nato dalla convivenza da comune di nove musicisti riunitisi nell’estate scorsa per un pugno di giorni al Cosabeat Studio di Villafranca, in quel di Forlì. Là, sotto la guida dei due componenti titolari del progetto, Franco Naddei e Pieralberto Valli, i Santo Barbaro sono mutati ancora, hanno cambiato pelle, registrando in presa diretta le 11 tracce del nuovo, inatteso lavoro e rivelando una fisicità e un vigore che fa da perfetto, complementare contraltare al precedente, eccellente ‘Navi‘. Sfrondati cieli e foreste, disertati i sentieri agresti dell’inverno intimista e innevato di quel disco fatto a quattro mani i Santo Barbaro cedono il passo al nuovo ‘Geografia di un corpo’, opera umorale e corale dalle forze quintuplicate che azzarda e rilancia il discorso piuttosto che gettare la spugna. E fanno benissimo. Perchè il destino, camaleontico, non ci compete. Né si ferma e governa. Basti guardare le differenti sfumature dei loro album ancora precedenti, ‘Mare morto’ e ‘Lorna‘. Basti fidarsi delle parole di Pieralberto quando, in una delle nuove canzoni, dice ‘non credo agli uomini ma agli eventi’. Con ‘Geografia di un corpo’ ne è uscito, oggi, un disco manifesto per autoinvestitura, forte e raffinato, che incorona con ardore e giustificato ardire la propria terra come il centro musicale e culturale del mondo tutto. Almeno in questo istante di vita della band. Forse non è un caso che al guado di ‘Corpo non menti’, primo singolo estratto dall’album, campeggino forti e fieri i versi ‘Romagnia mia capitale, geografia vaginale’. Casa. Della carne e della Musa. Dove tutto principia. Dove tutto torna, ritorna e riprende.

Musicalmente parlando c’è poca Italia, a dire il vero, sulla mappa di questo album e relativo live act. E quella più evidente ronza intorno alla gloriosa Linea Gotica di battaglie, suoni e parole che tanto, in passato, ha insegnato e disseminato di canzoni e proiettili proprio l’Emilia e la Romagna. E da queste parti, stasera, si ringrazia ed assimila. Fedeli e sinceri, certo. Non solo rossi consorzi, comunque. Troviamo anche le ciminiere e i cementi di Manchester. Gli abissi del cosmo e quelli delle miniere di Perticara. E i cieli dublinesi degli U2 quand’erano ancora infanti e immensi. Ci sono, ci sono. E chi di voi non lo ammetterà è un baro, uno spergiuro. Si va così, per tutte le tracce dell’album snocciolate una via l’altra durante il set, in un fertilissimo incesto anglo nostrano, che davvero, davvero, fa di questo disco e questa sera un luogo bello e un momento prezioso. Sul palco, sette elementi. Naddei ai synths. Michele Bertoni alle chitarre. Lucia Centolani e Matteo Teio Rossetti a batteria e percussioni. Francesco Tappi e Roberto Villa ai bassi elettrici. Doppia sezione ritmica, si. Giusto per non farci mancare niente e mettere subito in chiaro le questioni. Mancano solo Diego Sapignoli e Michele Camorani, ulteriore ritmica presente in studio. E davanti a tutti, dentro tutti, c’è la voce e i versi di Pieralberto Valli. E le sue danze sghembe ed elicoidali. E una Telecaster presto ammutinata ed abbandonata ai piedi del pubblico. Pubblico caloroso e presente, attento e rapito. I titoli dei brani, alcuni loro versi chiave (fatevi un favore e andateveli a cercare, con calma, con attenzione), sono delle scialuppe perfette per un viaggio lirico che forse per Valli non era mai stato così scheletrico ed essenziale. Non per questo fragile. Tutt’altro. C’è la forza e l’ingegno della tela di ragno nei testi di questo disco. C’è una città pronta ad esplodere nel sound, nei concerti e nei giorni a venire di questa band. Siatene tutti più che persuasi. La cosa è lampante a giudicare da quel che s’è visto stasera. A giudicare da qui. Proprio come Barcellona, vista dal terrazzo di Gaudì, certi pomeriggi. top

 

TIMBER TIMBRE + LAST EX
@ Bronson Ravenna 3 Novembre 2014 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Sono convinto che Taylor Kirk, voce e chitarra dei Timber Timbre, avrebbe voluto fare il regista cinematografico. E lo scrittore. E magari anche il pittore. Ritratti. Paesaggi. Deserti urbani. Banconi di bars. Sgabelli di clubs. Cuori spezzati e bicchieri scheggiati. Cose così. Perchè è evidente l’ambizione narrativa di Kirk e compagni. Perchè tutto, o quasi, nella poetica dei Timber Timbre, ricorda la sequenza di un film. La pagina di un libro. La foto di un luogo. Tutto sembra la cartolina di un’autopista. La luce rossa e soffusa di una dance hall di provincia. Il parcheggio di un diner, in mezzo al nulla, nella nostra fuga dal mondo. L’America. Quella dimessa, decadente e charmante. Ad appena due passi ma irraggiungibile. Osservata dalla finestra. Con i gomiti sul davanzale, il mento in mano. Vista dal Canada. Da vicini di casa. Dalle nostre vite apparentemente quiete e pacificate. Fatte di braci sopite, mai del tutto domate. Pronte a tornare. A ribollire ancora, alla prima scintilla. Boschi fitti di nebbie e sentieri lungo i quali è semplice perdersi, sconfinare. Anche il Bronson di Madonna dell’Albero, stasera, è una delle province di quell’Impero. Una delle stanze di quel Motel. La Parigi di Wenders. Una puntata inedita, un finale alternativo di “Twin Peaks”. Molto più che un redivivo spettro di “Les Revenants”. Non a caso in sottofondo prima del set d’apertura dei Last Ex c’è ‘Floating into the night’, primo album di Julee Cruise. Ma si accennava ai Last Ex, side project nelle salde mani di Simon Trottier e Olivier Fairfield, membri emeriti della band titolare. Il combo si abbandona in un ipnotico set che non esiterei a definire slow progressive, integralmente strumentale per chitarre, percussioni e synths. Un breve gig che mi colpisce per bellezza di suono e qualità di ritmiche al contempo nervose e liquide. Femminili, seducenti e oniricamente narcotiche. Bravi. Tutte qualità, queste ultime, infallibili e sinuose che ritroviamo anche nel concerto dei Timber Timbre. Ma nel secondo cocktail, questa volta, non solo cubetti di ghiaccio e fette d’arancio. Anche un ombrellino di carta e una cannuccia. Sissignore. Che certo nel nostro caso non sono sinonimo di esotismo e caraibi. Guai a noi e a loro. Ma indubbiamente aggiungono sapori e sfumature elegantemente, raffinatamente, sibillinamente più popular & easygoing. E apparentemente, solo apparentemente più… facili. Come le piccole, delicate frasette di piano ricorrenti in diversi pezzi. O l’andamento folky di alcune ballads che potremmo serenamente danzare in coppia con il nostro grande amore perduto che non tornerà, no non tornerà più. Gemme screziate di polveri diamantine dei Portishead meno teutonici e più leggeri, dei Valentine Six meno inquieti. Il tutto miscelato ad arte anche per gli orfani più romantici e trasognati di Cash. Williams. The Pelvis. E tutto l’esercito infinito dei loro figli, legittimi e non, sparsi nei decenni e nei continenti. E una voce, quella di Kirk, che davvero appartiene a un cowboy che ha certamente passato più di una sera in compagnia di diversi bourbons, Stuart Staples e Alan Vega. E davvero, a conti fatti, tutta quella vitaccia parrebbe non avergli fatto troppo male. E nemmeno a noi del resto, rimasti ad ascoltare. Perchè sono storie che non ci stancheremmo mai e poi mai di risentire. Soprattutto se raccontate così. top

 

MARLENE KUNTZ
@ Velvet Club Rimini 11 Ottobre 2014 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Salgo in auto, mi arrampico sulle colline di Rimini, raggiungo il Velvet e mi vado a sentire la terza tappa del Catartica Tour 994/014. Semplice. Stasera, sabato 11 ottobre, decido di spendere un paio d’ore della mia vita così. Ci sono i Marlene Kuntz, in giro a promuovere con un tour celebrativo del loro primo album anche un ep licenziato questo settembre, ‘Pansonica’, EP che recupera un pugno di canzoni rimaste escluse, vent’anni or sono, dalla tracklist dell’esordio. E, tranne una traccia, si tratta di inediti a tutti gli effetti che la band ha registrato ex novo e in presa diretta. Sono in formissima i Marlene. Nulla dei due dischi in questione viene trascurato e il pubblico che imballa il Velvet reagisce con grande calore e trasporto alla scaletta che scorre viva, aggressiva, nervosa e spedita. Un colpo via l’altro a ribadire l’energia virile che ha contraddistinto la gran parte dei primi lavori della band. Energia mai dimenticata, parrebbe, né dai fans né dal gruppo che, va detto, stasera on stage è un discreto carrarmatino, estremamente centrato calibrato. Godano è zuppo di sudore già alla fine del primo brano. Tesio quasi immobile per tutto il tempo non fallirà praticamente nulla. Bergia governa il treno dei tamburi da solido macchinista. Lagash olia i binari con calda decisione e confidenza. Nulla da dire sul neo acquisto al basso del combo, pur personalmente vedendo i MK nella loro formazione più preziosa anni fa, con Maroccolo, per quel breve lampo che fu. Ed è, alla fin fine, un poco questo il punto per me. I Marlene hanno sempre avuto – e conservano ancora oggi – tutto quello che serve e si domanda al rock d’autore di livello. Sia dal punto iconografico che da quello contenutistico. Davvero una caratura invidiabile, quantomeno in ambito Italiano. Anche se non mi fanno sempre impazzire alcuni loro slogan. E l’entusiasmo con cui certi sostenitori a volte tendono le braccia militanti mentre li gridano. Ragazzi che vorrebbero essere arruolati dalla musa. Principessine che vorrebbero essere notate e portate sull’altare dal gran cerimoniere forse. Lassù, dove arde e si consuma il rito. Ma son dettagli. Io stesso negli anni li ho amati, snobbati, difesi, trascurati e visti dal vivo decine di volte, in tutte le epoche e vesti. La cosa che più mi seduce e soddisfa di questo concerto, bello e pulsante, è che mi pare ampiamente scampato l’effetto nostalgia. Almeno dal punto di vista prettamente creativo e artistico. Ed è l’unica cosa che conta, in somma. Non m’interessa la reale natura – pur lecita, se così fosse – della scaltra operazione ventennale + inediti. Non m’importa più ormai se i MK non sono stati – e non saranno probabilmente mai – oltrechè lirici, spietati e potenti anche ironici nella loro arte. So che non glielo potrei mai chiedere. Né più me lo aspetto.
 Mi manca solo un poco di femminilità. Mi manca più del solito qui, cara Marlene. Al contrario di tutto il resto. Che brilla e seduce, abbondantemente, nei tuoi primi lavori. E questa sera. Ora come allora. top

 

SAVAGES
@ Locomotiv Club Bologna 26 Febbraio 2014 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Savages atto secondo. Ritorno sul luogo del delitto, ad una manciata di mesi dal mio primo concerto al cospetto delle quattro signorine nerovestite. Allora Berlin. Ora Bologna. Allora estate. Platea e apertura importante. Performance diurna a cielo aperto. Ora inverno. Audience stipata. Venue di nicchia protetta da soffitti e pareti scure. In entrambi i casi, alla fine, si tratterà di set infuocato e all’arma bianca. Ma questo lo sapremo dopo, solo alla fine. Seppur lo si sospettava fin dal principio. Avevo voglia, davvero voglia di rivedere Gemma Thompson, Fay Milton e la mia favorita, Ayse Hassan. E Jehnny Beth, al secolo Camille Berthomier. Colei che, inequivocabilmente, è talmente calata nella parte, talmente efficace nel ruolo di frontman da sembrare…vera. E dico frontman non a caso. Perchè la pur fascinosa Beth ha in corpo più di qualche virile attitudine. Indossa più di qualche ombra non del tutto amorevole e gentile. Ben più di un maschietto che oggigiorno fa rock, per quel che valgono ancora le categorizzazioni, dovrebbe vedersi almeno un paio di canzoni dal vivo di questa all female band. E magari prendere qualche appunto. Perchè l’effetto domino del combo, una volta caduta la prima tessera, funziona davvero a dovere. Quello che fanno le Savages, questa caustica e sulfurea miscela di post punk e dark wave che picchia e batte in testa come un motore, che sferraglia come un telfer è figlia legittima e devota di un glorioso passato. E’ parto diretto di quel lustro santo e limbico a cavallo di settanta e ottanta tra Albione e Grande Mela che, quasi quattro decadi dopo, trova eredi non solo nei primogeniti maschi ma, sorpresa, anche nelle figlie che si pensavano da marito. I parenti acquisiti già lì, tutti in fila, pronti col corredo. E invece no. Lame e mitraglie al posto di gonne e velette. Niente Bouquet e pugni di riso. Le Savages, concettualmente e letteralmente, indossano i pantaloni. Sentendosi perfettamente, assolutamente a loro agio. E senza dimenticare mai chi sono. Senza dimenticare mai chi c’è, realmente, dietro il… trucco. 

Ironicamente, è al gig di apertura dei fratelli Adam & Sam Sherry che viene riservata, nell’economia della serata, la parte più morbida e, in qualche misura, più delicata. Un melange di chitarre dilatate, percussioni piene di spazio e lirismo quasi d’altri tempi. Il loro progetto, gli A Forest Dead Index, offre alla platea un set che nelle atmosfere a tratti ricorda certi non luoghi targati Lynch e Badalamenti. 
E anche nel cantato, a volte, pare di sentire Julee Cruise. Bravi, misurati, ipnotici.

Acqua. Vapore. Dolci, pungenti nebbie. Prima dei lapilli di lava. Prima delle scintille, dei cavi elettrici recisi che penzolano dall’alto. Preceduto da una manciata di singoli e un EP live, l’unico album delle Savages, ‘Silence Yourself’, viene performato in lungo e in largo da quasi un anno ormai sui palchi di mezzo mondo. Chi va a un concerto delle Savages può aspettarsi (quasi) a scatola chiusa vigore, nervi e una strana, acida, algida sensualità. Sospetto che le quattro ragazze, offstage, siano piuttosto amabili e si facciano delle grandi, complici, materne risate. Ma durante il set la tensione – o per meglio dire, forse, la pantomima della tensione – riceve fedele e dedicata attenzione. E la maschera non cade mai. Dal primo all’ultimo pezzo. La Hassan suona il basso ad occhi perennemente chiusi, in trance onirica e perpetua. Le percussioni della Milton sono assolutamente presenti, vivide e determinanti. Le chitarre della Thompson davvero, davvero sforbiciano le frequenze come rasoi liquidi, confermando come il suono della chitarra elettrica ad alto volume sia, di principio, una delle invenzioni più grandi del ventesimo secolo.
E la Beth, già l’abbiamo detto, fa da gran cerimoniere per tutta la durata del rito. Per mia indubbia fortuna, ancora non ho del tutto chiaro se le Savages mi piacciano davvero o meno. E mi pare, questo, al di là delle evidenti e insidiose contraddizioni, un mutuo vantaggio. Da una parte c’è una band che, meglio di molte altre, sta riuscendo a coniugare un’apparentemente sincera urgenza comunicativa con altrettanta schietta coscienza performativa, degna del più consumato poseur. Dall’altra un fruitore, io, che ancora non ha capito bene il nome del gioco in cui è stato tirato dentro. Ma a quel gioco ci sta. E forse non è il solo. Certamente non lo sono stasera, a giudicare da quel mi accade intorno tra giovani e accaniti neoadepti, nostalgici stagionatelli e ragazze. Molte. Che galleggiano chi nell’emulazione acritica delle ancelle devote, chi nell’invidia tipica e preconcetta delle scettiche che rosicano. Magari perchè i fidanzati accanto rosicano per tutt’altri motivi. Da ultima una fluttuante, tangibile, solida frangia inequivocabilmente saffica. Che fa poco o nulla per resistere e diffidare. Perchè le Savages ci sono, indubbiamente. Ma ci fanno pure. Diversamente, difficilmente si spiegherebbe il loro millimetrico e calibrato equilibrio on stage. La divisione perfettamente centrata dei ranghi. La loro guerriglia incessante. Il loro fronte in avanzata costante. Degno di un meccanismo oliatissimo, di un reggimento veterano.

Soprattutto, quello che passa e vince è l’attitudine. L’idea. Il manifesto da movimento culturale azzarderei. Che diventa autorevole, credibile e apprezzabile soprattutto nell’insieme. Ben oltre i singoli elementi. Le canzoni, ad esempio. Non sono esattamente tutte indimenticabili. Te ne accorgi quando senti quelle più centrate, dove scatta decisamente un clic in un’altra direzione. Titoli come ‘Waiting for a Sign’, ‘Husbands’, ‘City’s Full’, ‘I am Here’, ‘Strife’, ‘Shut Up’, ‘She Will’, ‘Flying to Berlin’ lasciano il segno più profondo. E resta comunque questione di gusti e dettagli. Perchè anche No Face e compagnia bella fanno la loro porca figura in termini di muscoli . Ma quel che conta e vince, ripeto, è il manifesto di queste quattro ragazze. Piedi e radici ben piantati nei libri di storia. Sangue giovane, bello e famelico. Sguardo dritto verso il sol dell’avvenire. E la lezione del passato. Imparata talmente bene da sembrare quasi vera. Anche oggi. Anche qui. Ancora non ho del tutto chiaro se le Savages mi piacciano davvero o meno. Ma credo continuerò ad andarle a cercare. Con la segreta speranza di non risolvere il dubbio. E la certa tentazione di voler comprendere il rompicapo. Ancora una volta. Al prossimo concerto. top

 

  PORTISHEAD + SAVAGES
@ Zitadelle Berlino 18 Giugno 2013 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Perchè poi a un certo punto della vita uno potrebbe pure chiedersi che fine abbiano mai fatto le belle chitarre di Daniel Ash. Gemma Thompson fa spallucce. E le pose nervose di un certo Ian Curtis, le divise di scena prolet e la sfumature alte dei capelli? Jehnny Beth guarda altrove, Camille Berhomier ridacchia sotto i baffi. Aggiungete poi una batterista che picchia sodo come e quando deve e una bassista tutt’altro che wasp a tenere egregiamente le fila del magma ritmico pulsante et voilà! Ecco a voi Savages, all female band del momento che sa miscelare sapientemente teatro povero travestito da urgenza esistenzialista working class e approccio mascolino e virile di padri e fratelli maggiori che hanno fatto la storia dal post punk in su. Infine, va detto, presenza e faccini in grado di sedurre indifferentemente maschietti e femminucce. Bluff? Preziosa verità? Marketing perfetto? Analisi di mercato e talento ben centellinati e incastrati fra loro? Poco importa. Sul palco le ragazze tirano diritto per la loro strada, e comunque sia il loro è un set molto potente ed efficace e no, non è per nulla sgradevole osservare, ascoltare, applaudire. Insomma, dopo l’embrio indie di John & Jehn (e, presumo, chissà quante successive riunioni e ipotesi attorno a un tavolo, i personaggi di Bowie pre saga stellare insegnano) la novella Siouxsie e le sue degne ancelle hanno trovato la ricetta giusta. E, bontà loro e fortuna nostra, riescono anche a metterci del sale vero, musicalmente parlando, e dell’urgenza performativa credibile e perfettamente calibrata, dove i talenti di attrice della Beth tornano utilissimi on stage durante le plastiche e nervosette danze della seduzione con l’audience. Tutto bene, insomma, tutto bene. L’unica cosa che noto e appunto fin dai primi pezzi del loro set è che dopo la botta adrenalinica dell’inizio e la lecita curiosità voyeuristica resta nelle orecchie e sopravvive nel cuore il mood della proposta più delle canzoni. E questo fa la grande differenza.

Perchè quando sul palco salgono i Portishead succede come in quei film, pur buoni e recitati benissimo, dove a un certo punto spunta, che so, Gary Oldman. E capisci, dopo pochissime battute, che i cavalli di razza esistono, fanno la differenza e mettono istantaneamente della distanza tra loro e il resto del gruppo in pista. Il set dei Portishead è un attentato continuo a sentimenti, memorie, melancolie, amori e struggimenti. Il set dei Portishead è una macchina meravigliosa di battiti cardiaci lenti e sotterranei. Stagione di foglie secche e cementi umidi. Sinuoso fumo di sigarette, mani serrate a scaldarsi intorno a una tazza, birre bevute dal collo della bottiglia. Parole segrete, custodite e sussurrate. Fronti aggrottate da verità e addii. Voci impennate di nervi, sciolte da liquidi colpi di coda. Non puoi non vedere, non puoi non sentire, non puoi non scivolare nell’abbraccio di quelle fredde, salmastre, perigliose acque scure capaci di portarti così lontano da qualunque dubbio, al sicuro da qualunque speranza vana. E se invece resti al sicuro, ritto sulla banchina, credimi amico mio ti perdi davvero una morte dolce e bella. Roba da metterci la firma, durante certi inverni. Ed è ancora tutto pulsante e vero, pur così diversamente, dopo tanti anni. Le voci accuminate e verticali della Gibbons, le percussioni e i beats di Barrow e le chitarre da spy story di Utley che, a mio modesto parere, sono il vero segno distintivo del combo. Altri quattro musicisti sul palco tra sezione ritmica e uomini dietro tasti e fiati. Un gig solido, equilibrato e ispirato anche nella scaletta, che non rimane invischiata esclusivamente nelle meravigliose pietre miliari di ‘Dummy’ e ‘Portishead’ ma tratta con rispetto tutti e tre gli albums in studio licenziati dal’94, incluso lo spesso colpevolmente trascurato e sottovalutato ‘Third’. E si fanno vittime illustri, si scarta grasso e non poco: ‘All Mine’, ‘Only You’, ‘Humming’ giusto per citare le prime che avrei voluto sentire. Ma non c’è da lamentarsi, davvero. E oggi, nel 2013, alla storia ultraventennale di questi protagonisti della preziosissima scena di Bristol (chi c’era ricorderà indelebilmente) si sono aggiunte sfumature teutoniche e negromanti che brillano di luce cupa, andando a sfaccettare perfettamente il rompicapo che ha fatto di Francia in tweed, televisione in bianco e nero, scaglie di trip hop e cartoline south west d’Albione la propria cifra. Insieme a delle meravigliose, meravigliose canzoni. Che sono vivide, vicinissime, invincibili. E fanno la differenza con tutto il resto. E davvero non lasciano prigionieri. Anche le Savages, allineate a bordo palco in ascolto devoto e silenzioso, sembrano aver notato questo piccolo, cristallino, fondamentale, fatale dettaglio. top

 

BACHI DA PIETRA + SANTO BARBARO
@ Bronson Ravenna 15 Febbraio 2013 articolo pubblicato su Nerds Attack!

E’ ‘Urania’ la canzone che apre il set dei Santo Barbaro, in giro a promuovere un album, ‘Navi’, appena uscito e incredibilmente buono per parole, luoghi, suoni e suggestioni. Un set in un locale con qualche decina di avventori, a ridosso di una superstrada, in una sera di febbraio non bella. Ma il quartetto composto da voce, basso, synths assortiti e percussioni acustico/digitali – che in studio e nella formazione ufficiale fa capo ai soli Pieralberto Valli e Francobeat Naddei – fa dell’elemento emotivo e caldo di passione compressa nei muscoli e tesa nei gesti misurati l’elemento principe del concerto. Senza misteri. ‘Urania’ dicevamo. Un riff di synth algido e teutonico, che si attorciglia su di sé come una sequenza di codice genetico e trasforma la scala in un loop malato e magnifico, pericoloso e seducente. Sono soprattuto questo i Santo Barbaro, fin dal principio. E lo sono anche stasera: parole dall’est, profughe delle città di K e di paesaggi affini. Figlie di autunni e inverni. Sorelle di campi umidi. Madri di silenzi densi e brulli. Amanti di albe opache, palpitanti e vivissime sotto le braci. Sequenze digitali e faggi rossi, cunicoli binari e messi infinite. Cito un pugno di brani, a caso. Per quel che ricordo, per quel che vedo rimanere impigliato tra le dita che alzo dal sacco della memoria. ‘Prendi Me’… preziosa canzone d’amore capace di sposare la nuda essenzialità dei sentimenti che ci rivelano più fragili con tensione di nervi e respiro animale. ‘Tempesta’… battito cardiaco sintetico di un cosmo blu cobalto profondissimo, sepolto lontano dentro di noi. ‘Terzo Paesaggio’… locomotiva solida, raggiante, consapevole della propria bellezza fertile e iconoclasta. ‘Quercia’… forse il mio episodio favorito, danza gonfia di tribalità antica, sacra, mantrica e insonne, degna del rito più bianco. Arrivano infine i Bachi da Pietra, e il palco diventa uno spicchio di mondo dove la femminilità dei boschi innevati cede i sentieri alla virilità dei ghiacci. Ora io non ricordo benissimo tutto quello che ho visto e sentito stasera. Non perchè fossi sbronzo o distratto o annoiato. Nulla di tutto ciò. Per primo fatico a spiegare. E qualcosa mi sarà anche sfuggito, qualcosa avrò capito male forse. Ma certamente c’è una donna bellissima sulle navi dei Santo Barbaro. L’ho vista. Che sia spesso perduta e guardi altrove poco importa. Andate comunque a cercarla sui dischi, a spiarla nei concerti. Sarà più semplice poi, con un amore comune, intendersi. top

 

PETER HOOK & THE LIGHT
@ Velvet Club Rimini 9 Novembre 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Io lo sapevo, lo sapevo che stasera andavo a ficcarmi nei guai. Un po’ come quando hai vent’anni e tiri fuori dal ripiano più nascosto dell’armadio la scatola con le foto e la memorabilia della tua ex. Convinto di starci dentro. Perchè tanto è passato del tempo. Tanto l’hai superata e bla bla bla. Aspettative. Che spesso, spessissimo con gli esseri umani vengono disattese. Figuriamoci con i concerti. E Peter Hook è un essere umano. Un essere umano che fa concerti, opplà.
 I coraggiosi ragazzi della Bside Crew ci mettono faccia e tutto il resto organizzando questo evento, e il tributo del bassista al primo album dei Joy Division è, de facto, una celebrazione a tutto tondo della band. La scaletta trabocca non soltanto delle tracce – tutte – di ‘Unknown Pleasures’, ma recupera tanto materiale uscito su singoli ed EP’s, oppure incluso nel secondo album ‘Closer’ o addirittura dal repertorio dei Warsaw, primo embrio della band. Dunque non una semplice marchetta di dieci pezzi più un paio di bis striminziti di “quelle” canzoni che l’intera platea si aspetta e poi via, tutti a casa o a sbronzarsi o a fuggire col malloppo, ma un vero concerto. Anche se un poco di aria da lupanare aleggia comunque.

But we remember when we were young, vero Hooky? Su di un maxi schermo scorrono immagini di repertorio dei nostri, sia recenti che più in là negli anni, quando la band era ancora musicalmente legatissima ai vari Iggy e Ziggy per intenderci. E mentre placido e tranquillo me ne sto a osservare il pubblico che alla spicciolata riempie parte della sala e mi godo ‘Sister Europe’ e ‘Trans Europe Express’ sparate nell’impiantone Hook e il resto della truppa salgono sul palco. Jeans. Camicia scura. Più magro di come lo ricordavo ultimamente. Capelli corti. Niente barba. Sembra un agente di cambio, uno scommettitore in ricevitoria, un Fred Flinstone semiserio, il testimone dell’amico d’infanzia che si sposa in comune in seconde nozze, quello che veste sportivo anche alle cerimonie. Sorride complice ai suoi e alla platea. E quando guarda in tralice le prime file sì, rende giustizia ad entrambi i monikers destrorsi delle sue due bands più importanti. Basterebbe giusto virare tutto in bianco e nero e metterlo a sedere sulla banchina della stazione accanto Amon Göth e nulla stonerebbe.

Alla fine di ogni pezzo sfoglia diligentemente le pagine del quadernone con i testi. Canzoni che suona con disinvoltura, arte e un approccio energico e virile. E io me lo guardo ben bene questo omone stasera che ce l’ho davanti per la prima volta. Nonostante il mio giradischi lo conosca da tantissimi anni.
Lo guardo cantare le parole che qualcuno ha scritto prima di lui, mentre cerca di farle più sue.
Lo guardo riuscirci e lo guardo fallire.
Lo guardo cercare un poco di teatro nei gesti, indossare i vestiti e le scarpe di un altro.
Lo guardo celebrare la sua gioventù in un corpo quasi cinquantasettenne.
Lo guardo liquefarsi riflesso nella vetrata accanto al palco.
‘Unknown Pleasures’, ‘Warsaw’, ‘Dead souls’, ‘Transmission’, ‘Isolation’, ‘Twenty four hours’, ‘Love will tear us apart’, ‘Interzone’, ‘Digital’, ‘Leaders of men and so on’ io dal vivo non le avevo sentite mai. E l’emozione non manca. Davvero non manca. Perchè sono pezzi bellissimi. Perchè sono parole importanti. Sono felice, deluso, eccitato, spietatamente esigente di fronte a qualcosa che da un lato mi regala meravigliosi flashbacks, dall’altro mi lascia solo intravedere quel che non potrà essere mai più. Niente ‘Atmosphere’, probabilmente il loro pezzo realmente più prezioso e nobile. Ma alla fine di tutto non è questo il punto. Il punto è che stasera ci troviamo di fronte a uno spettro. Non di qualcuno, ma di qualcosa. Ed è assolutamente innegabile. Ed in cuor loro lo sanno sia i ragazzini con le magliette funebri e bellissime di Saville sia le madri, i padri che sono qui per ricordare un amico antico, uno specchio, un sentiero lontano e mai ritrovato del tutto. Come la morettina dietro di me che raglia ogni singola parola della mia canzone preferita, ‘Decades’. Come un inglesissimo quasi quarantenne accanto che segue tutto quel che accade sul palco con immobile attenzione e tradisce profonda emozione durante ‘Candidate’. Come un signore certamente coetaneo di Hook che era il primo in fila alla cassa e sarà il primo alla transenna di fronte al palco per tutto il set.
 Lo sappiamo tutti. E secondo me lo sanno anche loro.

Loro o quel che ne rimane. Prima i Joy Division, poi la dipartita di Ian Curtis, la metamorfosi e l’avvento dei New Order, lo scioglimento, la reunion e la nuova diaspora tra Hook e il resto della band. Curioso destino per quattro individui che insieme hanno creato così tanta bellezza. A guardarli oggi, separati e sparpagliati qua e là da morte, cause e progetti, sembrano parenti ancora più lontani di quanto non lo fossero allora, da quel maggio di trenta e più anni fa. E Hooky è uno di famiglia, non c’è dubbio. Ma i Joy Division sono una leggenda. E quando ti metti a fare braccio di ferro con la leggenda che succede? Succede che perdi. Anche se fai bella, bellissima figura. E non credo sarebbe andata diversamente se ci avesse provato Morris, oppure Sumner, o addirittura lo stesso Curtis se solo avesse ancora potuto. Two and two always makes a five diceva qualcuno tempo fa. E mio malgrado non posso dargli torto a quel qualcuno, anche se non mi sta troppo simpatico. In fondo il manifesto della serata non aveva barato. Peter Hook & The Light perform ‘Unknown Pleasures’. A Joy Division Celebration. E questo è stato. Nel bene e nel male. top

 

ENNIO MORRICONE
@ Piazzale Fellini Rimini 25 Agosto 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

“La prossima volta andiamo a sentire Casadei” dice una signora nella fila davanti. L’amica seduta accanto per tutto il concerto le scatta foto col cellulare, poi pubblica su Facebook commentando a bassa – ma altissima, di fatto – voce. Alcuni astanti sonnecchiano già al terzo, quarto pezzo. Altri, nella sezione stampa e con al collo il relativo pass, sembrano tutti tranne che giornalisti. Un bimbo di 12 anni, certamente corrispondente del “Corriere Dei Piccoli”. Una coppia di signori simil Briatore e Santanchè, penne addomesticate per “Gente Di Un Certo Livello”. Sempre e comunque smarphones in azione, vecchi e giovani rincoglioniti dalla tecnologia nazipopbolscevica di questi tempi fatti di scatti sfocati, flash invadenti e brandelli di video tremolanti che nessuno o quasi rivedrà più. Io tifo invece per quelli senza il biglietto da cento euro cento accampati fuori dai cancelli, come fossero allo stadio. Esulto pure quando tirano giù il telone guadagnando così non solo l’audio, ma anche il video della serata. Carabinieri e security guardano dall’altra parte. Grande simpatia anche per i clienti del Grand Hotel sui balconi delle suites, che scroccano il concerto esattamente come il popolino dirimpettaio a loro idealmente gemellato. Almeno questa sera. Ennio Morricone sul palco. Claudia Cardinale in prima fila. La Roma Sinfonietta. Il soprano Susanna Rigacci. Un coro meticcio composto da tre differenti scuderie locali. Il nome dello spettacolo, “La bellezza ci salverà”, ispirato da Dostoevskij prima e Tonino Guerra poi, un’altro che col cinema da Champions League qualcosina c’entra. E una cornice piuttosto suggestiva e surreale, sul lungomare di Rimini. Uno scenario – perdonatemi ma lo devo dire, stavolta devo – davvero onirico e Felliniano. Ennio Morricone – classe 1928 e aspetto da ciabattino di quartiere d’altri tempi – snocciola una dopo l’altra tutte le note della colonna sonora di molti, e di molte generazioni. Si comincia con il bianco e nero degli scudi Titanus. “Ostinato ricercare per un immagine” da L’ultimo Gattopardo: ritratto di Goffredo Lombardo, regia di Giuseppe Tornatore. Poi giù subito l’artiglieria pesante, con ben tre pezzi da “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Commozione pura amici. Noodles che spia Deborah mentre Danza. Patsy sulle scale di Peggy, mentre mangia la panna del dolce. “La leggenda del pianista sull’oceano” ancora di Tornatore. Mosè, lo sceneggiato su Marco Polo. Ricordi televisivi da Twin Peaks 50 minuti a settimana e Coppa Uefa con Rummenigge di mercoledì sera. E poi, proiettile dopo proiettile, torna Leone. “Il buono, il brutto, il cattivo”. “C’era una volta il west”. “Giù la testa”. Dopo “L’estasi dell’oro” non arrivano i Metallica ma Susanna Rigacci, di rosso vestita, spadroneggia. Fine prima parte. I rumorosi Briatori con calice di vino in mano rispuntano come funghi tra le file di poltroncine. Ancora per poco. Seconda parte più debole con alcune scelte secondarie, eccezion fatta per la suite da “Gli Intoccabili” di Brian De Palma e la “Stairway to Heaven” del nostro, “Mission” di Roland Joffè. Bis, nel vero senso della parola, che va sul sicuro e ritorno in scena della Rigacci col suo Winchester. Fine. Una serata quasi da incorniciare, Ennio. Totale rispetto, e sincero. Anche se non mi hai fatto nulla da “Indagine” di Elio Petri. Maledizione. top

 

MORRISSEY
@ Manchester Arena 28 Luglio 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Morrissey a Manchester. E non c’è manifesto, uno che sia uno, fuori e dentro l’Arena o in giro per la città. Tutti sanno già quel che devono sapere. Tutti i devoti conoscono la strada verso il pulpito, mai come oggi pronto ad accogliere il rito. Anche al pub, se scambi un paio di parole con un tizio a caso e azzardi un “are you going to the concert?” quello replica naturalissimo “certainly”. Chettelodicoaffare. L’ex cantante degli Smiths sceglie di sparare un solo proiettile in – oppure alla, decidete voi – patria, e decide di farlo… in famiglia. Quella di stasera è l’unica data del tour mondiale per l’intero Regno Unito, e Morrissey ha scelto casa. Un bel regalo, non c’è che dire. Tra il set del nostro e l’opening act della povera Kristeen Young, sola soletta sul palco and truly overwhelmed dal peso dell’evento scorrono sul maxi schermo vecchi filmati. Nico, Sparks, New York Dolls e così via. E noi tutti ordinati ed eccitati come bimbi davanti al televisore, sul tappeto, nel salotto e nel pigiama di trent’anni fa e più. Poi all’improvviso qualcuno spegne tutto e parte una lunga intro con un bel gioco di luci e la voce fuori campo di zio Moz che declama un elenco di cose belle e meno belle, tra cui la celeberrima ‘Clause 28′. Infine band sul palco, e il nostro in testa verso la prima fila, in rispettoso inchino verso la folla letteralmente in delirio. Cembalo e voce, un paio di versi di Patti Smith (“White shining silver studs with their nose in flames… He saw horses, horses, horses, horses…”) presto travolti e annegati nel riff di ‘You Have Killed Me’. Partiti. Prima con ‘Everyday is Like Sunday’ (e siamo già un po’ tutti disarmati appena al secondo pezzo), e finiti irrevocabilmente poco dopo con ‘How Soon Is Now?’, il cui accordo iniziale mescolato alle luci scarlatte e al boato da stadio del pubblico è davvero come un colpo di rasoio.

Io a questo punto ho già reso le armi. Lo spettacolo è una serie interminabile di colpi bassi per grandi e piccini, precisi e calibrati. Lo stesso Morrissey, verso la fine, prima di ‘Please, Please, Please Let Me Get What I Want’ si dice felice qualora fosse riuscito, durante il concerto, a “farci male”. Dice prorio così. E ben venga. Anzi guarda, da qui a qui non mi hai ancora preso. Accomodati pure. ‘Maladjusted’… ‘Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me’… ‘Scandinavia’… ‘Meat Is Murder’ (con tanto di raccapricciante video sulla macellazione)… ‘Let Me Kiss You’… ‘I Will See You In Far-Off Places’… ‘I Know It’s Over’. Così, giusto per avere un’idea della qualità del set. Una scaletta nemmeno così scontata, ulteriore punto a favore di una serata davvero preziosa. Senza nulla togliere a tutto il popò di roba lasciata fuori, alle decine di potenziali e strepitose alternative rimaste parcheggiate. “At your service” dice Morrissey rivolgendosi all’audience. E la sensazione nettissima è che davvero, davvero sia così. Che tutti siano qui per lui, e che lui canti per ognuno dei presenti. Non è il mio primo concerto di Moz. Certo è il primo in cui il pubblico non è costituito prevalentemente da hipsters e proto Jimmy Dean e compagnia bella. Che sono meravigliosi, non mancano mai e mai potrebbero, tanto che c’è addirittura un piccolo gruppo con delle magliette fatte da sé con la scritta Oui, je suis Morrissey. Ma stasera l’aria è diversa. Molto romantica, molto intima. Nonostante il parterre e gli spalti pienissimi, le migliaia e migliaia di… parenti. Padri e madri over 50 per nulla cool (certo non in alcuna accezione “ggiovane” del termine) che si esaltano con i figli di 10, 15 anni al seguito. Che si commuovono come i ventenni che erano. Che inneggiano al nostro manco fossero allo stadio. Moz è veramente uno di loro. Cantando se stesso diventa la voce di tutti, o quasi. Di questi luoghi, questa cultura, questa vita e questi sentimenti. Che certamente sono anche di chiunque nel mondo li riconosca. Ma qui a Manchester sono forse più tangibili. Non ci piove. Quelle parole, quelle di Moz, sono lo specchio della città. Con buona pace di tutti le divisioni della gioia, i nuovi ordini e le haçiendas che due cosette due in town le hanno pur dette anche loro in passato. Ma stasera non c’è partita. La mia carissima amica Arianna – a cui devo la trasferta e che ringrazierò supinamente per questa e le prossime vite – mi aveva avvertito. Ora so.

Non mancano poi gustosi dettagli ironici, come la proiezione di un gigantesco Oscar Wilde che sentenzia perplesso “Who is Morrissey?”. E forse non sarà un caso se l’unico spettatore che dalle prime file viene accolto e abbracciato sul palco sfoggia una maglietta con la scritta cubitale “We hate William and Kate”. Fino alla fine le frecce intinte nel curaro non termineranno certo qui. Ma all’epilogo si arriva purtroppo. Dopo ‘Still Ill’ si riaccendono le luci, parte il classico disco di sottofondo e… ci credereste? Siamo in molti a rimanere e riconoscerci, giunti al capolinea, doloranti e malati. Non c’è che dire. E da buoni collaborazionisti lo saremo probabilmente sempre. Il nostro cuore è tuo, il tuo cuore è nostro. “Forza Mozza” dice una delle t-shirt in vendita al banco del merchandising. E grazie Manchester. top

 

DENTE + AMYCANBE
@ Corte Degli Agostiniani Rimini 10 Luglio 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Giuseppe Peveri come Lorenzo Cherubini. Sono tutti un pò invidiosi, chissà perchè. In chiusura del festival di musica e letteratura Assalti al Cuore e in occasione del concerto di Dente, alla corte degli Agostiniani di Rimini si respira aria di micro evento. Perché quando anche l’aiuto barista, che di solito se ne frega serenamente dello spettacolo, decide di rimanere per vedersi il concerto invece di schizzare a casa a fine turno tale definizione pare appropriata. Micro evento anche se la platea si riempie lentamente, e comunque non del tutto. Colpa della crisi? Della sovraesposizione indie/mediatica del nostro? Dei frequenti concerti in zona? Del caldo e delle granite al tamarindo da gustare indolenti seduti sui gradini di Piazza Cavour a guardare lo struscio dei passanti? No se, e in fondo poco importa. Dopo aver visto John Cale insieme ad appena un centinaio di astanti da alcuni anni ho definitivamente rinunciato a considerare influente il numero di spettatori sulla qualità di un artista. Dente sopravvalutato, sottovalutato, equo valutato dunque? Chissà chissà. Ai posteri etc etc. Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette direbbe qualcuno. Il ragazzo ha messo su la barba e si comporta ormai come un ometto dico io. La band gira che pare un orologio svizzero, Faimali e Gambini basso e batteria rotolano che è un piacere, Cipelli alle tastiere incensa e ricama, e Beppe, si sa, suona l’acustica con la disinvoltura e la leggerezza rara del folksinger. Meglio di un certo Dylan ad esempio, a cui fa comunque spesso riferimento per rivedere l’arrangiamento di alcuni pezzi come nel caso di Quel Mazzolino. Le altre canzoni del concerto, vecchie e nuove, non sto qui a ricordale perché tanto, inutile che neghiamo, le conosciamo già. Ci basti dire che tutto il set ha un grandissimo retrogusto agrodolce, nazionale e 60’s, di quell’Italia però molto attenta a quel che succedeva oltrecortina oltreché a Sanremo o al Cantagiro. Perché il Peveri scrive, cita e fa il gioco delle tre carte meglio di uno slavo coi turisti, ma aggiunge pure un pizzico di additivo segreto e noce moscata delle sue parti, di quella buona. La formula funziona tantissimo e con merito. Anche quando i pezzi non sono sempre così irresistibili – ma la + parte lascia il segno – e l’ironia tra un brano e l’altro non è sempre così contagiosa e ispirata. Vascello quasi inattaccabile insomma. Dente non è il mio preferito della covata, ma ha tutto il mio rispetto. Lo so, sembro Hansel quando parla di Sting ai VH1 Video Awards, ma per me il nostro merita tutto quello che ha tirato su finora, lo dico croce sul cuore. Nonostante, a mezza voce, i detrattori del fenomeno, tra colleghi e non, ci siano eccome. E il Peveri intanto che noi ci si interroga e alambicca che fa? Se la gode e se la ride. Giustamente. E continua a raccontare le sue storie di amore urbano come + gli piace. Penna ironica e puntuta, sguardo malinconico sul mondo travestito da funambolico distacco e colpo in canna apparentemente, solo apparentemente, a salve. Chiamalo scemo.

Ma ora si parla degli Amycanbe, opening act della serata. Io quando vedo questa band mi dimentico che sia Italiana. E non perché sono un esterofilo tout court o perché il combo Cervese ha scelto il pianeta anglosassone come idioma etimologico e riferimento musicale tutto. E’ l’attitudine che li frega amici. Oltrechè l’altissima qualità del loro lavoro, beninteso. Non ci sono molte realtà tricolori così centrate nel loro linguaggio e sul loro sentiero. Datevi un’occhiata intorno e sappiatemi dire. Anche qui, come per il Beppe, salterò i dettagli legati a titoli etc e mi concentrerò sul pensiero generale. Oggi va così. Il suono, l’attenzione, la presenza, la radicalità, il coraggio, il fare di necessita assoluta virtù. Son bravi, c’è poco da girarci intorno, questa sera come la maggior parte delle volte che li ho visti. La band ha poi un legame intimo e antico con Assalti al Cuore dato che alcune edizioni fa fu lo stesso festival che la invitò a performare un set intorno l’opera di Gertrude Stein, e i ragazzi paiono sinceramente felici di tornare in cartellone. Tutti suonano tranquillamente un pò tutto a seconda delle esigenze del singolo pezzo tra synths, chitarre, bassi, batterie e tastiere, tanto che alla fine Marco Trinchillo, Mattia Mercuriali, Glauco Salvo, Francesca Amati e Paolo Gradari entrano ed escono dalle canzoni come i clienti di un’albergo attraverso la porta girevole della recepiton. E la platea apprezza sincera. Ma siccome non siamo a DoReCiakGulp e non mi chiamo Mollica azzardo pure, per fortuna, e dico che personalmente le parti del set che mi hanno maggiormente colpito sono quelle + acide, senza nulla togliere a quelle + pacificate. E ancora quanto mi interesserebbe, prima o poi, sentire qualcosa anche in italiano. E quanto a volte mi piacerebbe vedere qualche movimento perfettamente efficace in meno, e magari qualche follia senza rete in più. Ma davvero amici, qui sto facendo dell’accademia neanche fossi il capo redattore di Tutto Uncinetto perché l’intera mezz’ora abbondante di set della nostra Amy è davvero di livello. E non dimentichiamoci il Peveri poi. Anche il volto stupito, sedotto e pensieroso del mio amico Massimo seduto in decima fila alla fine riassume perfettamente luci ed ombre dell’intera serata. Soprattutto luci. Peccato non avergli fatto una foto. top

 

dEUS
@ Hana Bi Marina di Ravenna 3 Luglio 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Inutile girarci intorno: Klaas Janzoons mi fa un pò tristezza. Là nell’agolo del palco, circondato da strumentini e ammennicoli tra cui il violino che tanto furore fece nella prima produzione della band, con la sua aria spesso inquieta e imbronciata e i suoi chili di troppo Klaas è lontano anni luce dal personaggio – e dal ruolo – che scintillava nella formazione storica della band. Prendete ad esempio il video di ‘Little Arithmetics’, dove comunque nella formazione manca già Rudy Trouvé: venti secondi dopo il primo minuto Janzoons entra in campo manco fosse una diva del muto, e sette secondi + in là sghignazza di gusto accanto a Stef Kamil Carlens e Craig Ward. Anno dopo anno, disco dopo disco, il violinista ha rappresentato per me il simbolo perfetto di quello che sono diventati i dEUS. Semplicemente, un’altra band. E lo hanno fatto naturalmente, come il sottobosco della foresta pluviale con le piante cadute, o il cemento di New York con chi non sta al passo della metropoli. Attenzione: pur essendo profondamente affezionato a ‘Worst Case Scenario’, ‘My Sister is My Clock’, ‘In a Bar Under The Sea’ e ‘The Ideal Crash’ non sono un passatista, e trovo l’attuale formazione del combo belga è + solida che mai. Stéphane Misseghers ai tamburi e Alan Gevaert al basso sono davvero bravi, e Mauro Pawlowski alle chitarre è il perfetto alter ego del nuovo Tom Barman. I due mi ricordano, nel rapporto, un’altra curiosa coppia in grande simbiosi sulfurea, Nick Cave e Warren Ellis. Però, in quel caso, Bargeld e Harvey hanno levato le tende. E hanno fatto bene, secondo me. Perché non c’è nulla di + triste di restare avvinghiati a un amore che va evidentemente da un’altra parte, verso un altro luogo. Nè migliore nè peggiore, semplicemente altrove. Però si, non nego. Se da un lato i pezzi nuovi mi spettinano con la loro onda d’urto e puntano spietati ai chakra più bassi, è altrettanto vero che quando partono i pezzi vecchi le ginocchia mi fanno giacomo giacomo.

Per dire: il concerto inizia con ‘Little Arithmetics’, il terzo o quarto pezzo è ‘Instant Street’ (e alla fine della cavalcata elettrica finale salta pure la luce) e lungo il sentiero i bastardi giocano sporchissimo e mi scodellano pure ‘Hotellounge’, ovviamente ‘Suds & Soda’ (con citazione/omaggio a ‘Sabotage’ dei Beastie Boys), una tesissima ‘Roses’ e una rarissima ‘Morticiachair’ nei bis. Rarissima almeno per me, avendola sentita forse solo nel loro primo tour italiano del ’95. Tutti gli altri classici moderni, leggi ‘The Architect’ e affini, ci sono. Puntuali, scoppiettanti e sbrilluccicosi per la gioia di grandi e piccini. Niente ‘Nothing Really Ends’ purtroppo, una delle mie preferite della nuova era. Comunque un gran bel concerto, intendiamoci, con una band decisamente in spolvero e un Barman proiettato verso i nuovi compagni di viaggio che dà un poco le spalle, letteralmente, ai vecchi compari. E io apprezzo e ringrazio giovanili amici belga, non mi lamento mica. Ma ogni tanto penso a quando, tantissimi anni fa, qualcuno della band saliva sul palco e prima del concerto si presentava e faceva una cover in solitudine. Tipo ‘The Messenger’ di Daniel Lanois, cose così. Era un bel benvenuto. Poi, la festa. Altrove. top

 

CODEINE
@ Locomotiv Club Bologna 31 Maggio 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

“D because you pay the rent”. Questo verso nella prima strofa della prima canzone del primo album dei Codeine mi colpì moltissimo, allora. Ho sempre avuto un debole per le canzoni d’amore che non temono di dire le cose. Tutte, fino in fondo. Comprese quelle meno…virtuose? Ancor prima, quando ero davvero piccino, c’era ‘World Full of Nothing’ dei Depeche Mode che diceva “though it’s not love it means something”. E molte altre, sparse qua e là tra i miei dischi, le mie cassette e non così tanti CD. D, per i Codeine, è anche la prima canzone del set di questa sera al Locomotiv di Bologna, unica tappa italiana del trio resuscitato per una breve serie di concerti che tornerà a disintegrarsi dopo la data newyorchese di metà luglio. Prima di loro qui a Bologna due gruppi nostrani dall’indole ben poco nazionalistica, a riprova che la cultura che ci forma e tira su, spesso, è apolide. I Comaneci, a mio modesto parere, vincono a mani basse con le loro canzoni per doppia voce, chitarre e banjo che fanno dell’essenzialità in duo una solida, efficace e piuttosto raffinata formula mentre il combo fondamentalmente strumentale ‘Anni Luce’ fa meno presa sulla mia attenzione.

Infine il boccone del prete della serata, e sul palco sale il trio americano. Non ci troviamo di fronte alla reunion di annoiati figuranti col pilota automatico inserito venuti a batter cassa nei salvadanai di chi vent’anni fa aveva vent’anni e forse, stasera, vuole averli ancora. L’effetto nostalgia è agilmente fugato. Almeno sul palco. Stephen Immerwahr (voce e basso), Doug Scharin (batteria) e John Engle (chitarra) sono, per quel che pare, decisamente in forma. Addirittura, per usare parole loro, “if not cheerful at least not unhappy”. E noi gli crediamo. La band – che a detta dei più è stata inequivocabilmente tra i fondatori consapevoli e non dello slowcore, genere che tanti bei dischi sparse come spore negli anni ’90 – snocciola senza timore nè tremore molte delle canzoni della loro breve e intensa produzione. Produzione arrestata sì diciotto anni or sono, ma appena ristampata in un lussuoso cofanetto onnicomprensivo + inediti intitolato ‘When I See the Sun’. E’ chiaro che dei tre Immerwahr è quello che, per ruolo e probabile indole, non nasconde il desiderio di condurre la truppa. Altrimenti non avrebbe scritto dei testi così, non parlerebbe quasi sempre al singolare e non tradirebbe la sua apparente glacialità imbracciando un Fender Jazzbass così rosso come quello di stasera, dai. Sarà per le mie fisime cinefile, ma mi ricorda il Soderberg di “Schizopolis”. E anche un poco un marine di provincia. Sharin sembra l’amico di Paul Giamatti in “Sideways” mentre Engle non stonerebbe tra i colletti bianchi di “JFK” o “Mississippi Burning”. Molti sostengono che le caratteristiche dei Codeine – voce distaccata su liriche quasi Carveriane, ritmiche dilatate, ipnotiche e chitarre affilate che prima fendono l’aria e poi lasciano sgretolare le ossa dell’accordo – siano sostanzialmente rimaste immutate nei dischi e negli anni. C’è del vero, indubbiamente. Ma non con un’accezione negativa. E non dimentichiamo mai che ci troviamo di fronte ad una band che ha fatto del proprio linguaggio in toto “la” canzone. Ben oltre le singole tracce – peraltro spesso pur belle – che stasera tornano a respirare on stage. Non molti, nella grande famiglia slowcore, possono dire lo stesso. Le canzoni dicevamo. ‘D’… ‘Cigarette Machine’… ‘Pea’… ‘Loss Leader’… ‘Tom’… e via così. Foto essenziali, nude, mai gratuite, che comunicano senza gridare. Ci si deve fidare, sposare la causa come i grandi bluesmen che fanno sempre la stessa danza, over and over again. E alla fine sublimano lo spazio intero, mica solo un stellina di stagnola appiccicata lassù. Ci raccontano tutte le storie, ripetendo sempre la stessa. E’ stato bello e importante, per chi c’era, essere testimoni di questo revival tutt’altro che nostalgico di una band che ha dimostrato certamente di essere ancora “là”, dove è sempre stata. E dove l’abbiamo ritrovata, ora come allora, immobile e preziosa. top

 

IL PAN DEL DIAVOLO
@ Barrumba Pinarella di Cervia 18 Maggio 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Vidi per la prima volta Il Pan del Diavolo nel “lontano” 2009, a Santarcangelo di Romagna, in occasione dell’unica edizione dell’iFest, minifestival di Ribèss Records. Tempi non sospetti, dove “i” stava ancora per indie e non per applicazioni o calcolatori bianchi. E fra tutti i partecipanti a quel minifestival certamente Il Pan Del Diavolo più di altri raccolse la sfida baionetta in canna, esibendosi accanto alla piazza del main stage, nella veranda di un bar tra tavolinetti e biliardini. E di fronte una decina di spettatori. Io seguii tutto il concerto dal prato, in piedi, appoggiato al palo vicino lo scivolo dei bambini perché era maggio e fuori si stava già bene. Stereofonia davvero psico surreale quella sera, un pò come le chitarre nei dischi di alcuni decenni fa. Alla mia destra le grida di marmocchi scatenati e genitori disperati al seguito. Alla mia sinistra loro, i demoni in carne e ostia, Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo. Ce li avete tutti presente, no? Estetica fifties, sangue siculo e sulfureo e dita inchiodate su riff e accordi degni di John Dillinger. E fu un concerto di livello e senza sconti quella sera, con la band nella sua versione più primitiva e arcaica – ma non meno preziosa dell’attuale quartetto – forte della sua identità di due chitarre più due voci più grancassa che già sapeva su quale binario correre e per quale destino. Con o senza biglietto e compagni di cuccetta.

Sono passati tre anni e due dischi e mezzo. E Yuma questa sera si chiama Barrumba, Pinarella di Cervia. A quei dieci spettatori occorre aggiungere almeno uno zero – e forse qualcuno si aspettava qualcosa di più – ma per i ragazzi la cosa non sembra cambiare di uno sputo l’attitudine sul palco, ora come allora centralissima e spietata. E con loro, questa sera, a portare nuove chitarre, bassi, batterie, percussioni e ammennicoli vari ci sono anche i preziosi talenti di Antonio Grammentieri e Diego Sapignoli, due fiori all’occhiello che ormai la sanno davvero, davvero lunga tra De La Vega, Sacri Cuori e le numerose, prestigiose collaborazioni in giro per lo stivale e il geoide intiero. I pezzi del nuovo album ‘Piombo Polvere e Carbone’ – che il tour relativo promuove – sono differenti rispetto al resto del materiale fin qui licenziato. Non poteva essere diversamente. Differenti, non peggiori intendiamoci. E dal vivo la cosa si fa molto chiara, almeno per me. Perchè se in quartetto la band spinge e stantuffa con le acustiche nervose davanti a rasoiare e l’elettricità e i tamburi dietro a tessere, e un poco in tutto – testi compresi – c’è una sotterranea, quasi impercettibile ombra, è nei bis che il duo recupera una manciata dei vecchi numeri e pianta la cara vecchia bandierina del Risiko su quella che è la loro terra madre. E portano a casa la battaglia, già ampiamente ipotecata. Ultima cavalcata elettrica al gran completo, poi sipario. Io li ammiro a stì ragazzi. Sia soli che in doppia coppia. Perché la loro devozione verso il verbo li fa vincere, sempre. Anche quando certe canzoni aiutano un pò meno. E il sudore nutre e pompa più del sangue, nei muscoli giusti. Grande, grandissima fede nella Musa. Perchè si è invincibili, quando si è innamorati. top

 

CORO DELLE MONDINE DI NOVI E BARABBA
@ Vecchia Pescheria Rimini 25 Aprile 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Certo, c’è memoria e memoria. E un certo Ferretti, quando ancora si occupava di terre, guerre e questioni private sosteneva che la memoria più bella è quella senza retorica. Sarà. Ma c’è un’arietta leggera questo pomeriggio a Rimini, di quelle che ti fanno venir voglia di passeggiare e sentire che la giacca per difendersi dagli ultimi freddi, oggi, forse non serve. E c’è anche il concerto delle Mondine di Novi di Modena insieme ai ragazzi di Schegge di Liberazione, che leggeranno alcuni racconti del loro libro e li accompagneranno a colpi di clarinetto, ukulele e contrabbasso. Quando le mondine arrivano, escono alla spicciolata dal gruppo di gente che riempie la piazza. Chi a curiosare, chi in loro attesa, chi con una bandiera in spalla e un tricolore al collo, chi a passare per caso con il gelato in mano. Quando le mondine sono tutte vicine, una macchia di rosso sboccia accanto alla vecchia pescheria in marmo che sarà teatro del loro concerto e diventa impossibile non riconoscerle. Le canzoni, belle e popolari, sono le solite, note agli amici come agli altri. Le canzoni parlano del solito, di come sia nobile morire giovani ma liberi, dell’amore per il proprio uomo, la famiglia, per la propria terra, della lotta all’invasore e così via. Più crudi e realistici alcuni dei racconti interpretati dai giovani attori che si alternano al microfono, letture sì musicate ma spogliate del lirismo proprio delle melodie cantate dal coro. Ma su nomi, cognomi, titoli e soprannomi non mi sento di dire molto di più, e non perché non me ne importi. La forza, l’anima nella voce di queste donne è talmente potente e radicale che solo oggi capisco che cosa deve essere stato ascoltare il vero blues, lo spiritual, il gospel. Credevo di saperlo già, solo oggi ne avverto e comprendo realmente l’essenza. Non sto esagerando. Non sono stupido, diabeticamente romantico, invasato o supinamente partigiano. La quasi totalità dei tanti, davvero tanti concerti che ho visto nella mia vita non hanno mai nemmeno lontanamente sfiorato l’emozione e la forza di comunicazione di quello che provo oggi di fronte a queste signore che alla fine di tutto salutano educate, ringraziano, dicono di non sentirsi da museo e di fare figli. Evviva la retorica. Perché a volte, per dire tutto quello che serve, non servono troppe parole. Io in questo momento sto scrivendo dalla veranda di casa, di fronte a una collina verdissima, con le barbaglie bianche dei fiori che galleggiano nell’aria, nel cielo limpido. Bello ora come settant’anni fa, perché è lo stesso cielo. Talmente bello che mi verrebbe voglia di proteggerlo in qualche modo, non so nemmeno io come, proteggerlo con tutto quello che c’è sotto. Proprio come qualcuno ha già fatto per me, prima di me. Evviva la retorica, sì. Perché a volte non servono troppe parole per dire tutto quello che serve. top

 

FLUON
@ Wadada Lab Spadarolo di Rimini 21 Aprile 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Quelli del Wadada Lab ci hanno preso gusto. Le serate Psychedelic Vampire sono diventate un appuntamento che una tantum propone concerti inequivocabilmente legati da un filo scarlatto. A inizio stagione i Krisma, poche settimana fa Garbo e questa sera Fluon, nuovo combo capitanato dall’ex Bluvertigo Andy. Arrivo al locale con un ritardo criminale per un impegno di lavoro, già rassegnato al fatto di godermi appena gli ultimi scampoli di concerto e forse un paio di bis. Ma il Wadada si riempie lentamente, e la band attende generosa i ritardatari come me. Bene. Lo spettacolo comunque non manca. Fateci caso: alcuni concerti, più di altri, hanno peculiarità iconografiche e cronologiche relative al pubblico molto precise. Ed è estremamente interessante, questa sera, osservare riuniti sotto la stessa bandiera simil impiegati, wavers, dark, goths e proto romantics. Non pochi senza qualche ruga, qualche lineamento appesantito dall’alcool e dall’età che si nota un poco di più sotto eyeliner, smalto e rossetto scuro mentre dall’impianto si sentono le immancabili icone di trenta e più anni fa, potentissime, giovani e immortali. Lo confesso: temevo un poco questa serata. Per ragioni personali e non.

Per tutti i nipotini di Eno e Bowie, i fratellini minori di Japan e Depeche Mode devoti della meglio – o peggio, a seconda dei gusti – gioventù degli anni ottanta i nostrani novanta sono stati belli anche grazie a band come i Bluvertigo di cui il nostro fu con Morgan fondatore. Ho personalmente amato molta della loro produzione fin dagli albori, le loro derive soliste post split e un poco meno la loro revival reunion, per cui le mie aspettative, le curiosità riguardo il nuovo progetto di Andy di cui conoscevo appena il singolo ‘Naked’ o poco più erano vive e reali. Pochi indizi da sbirciare origliare in rete perché ancora sul mercato un album ufficiale vero e proprio non c’è, dunque il live del progetto Fluon diventa doppiamente prezioso per chiunque sia interessato a capirne di più. La formazione comprende Andy alla voce, sax e synths, Fabio Mittino alla chitarra elettrica e Faber in regia elettronica. Il trio fa proprio della componente electro il canovaccio principale su cui innestare tutte le idee armoniche dei pezzi inediti e delle numerose e belle cover presentate nell’arco della serata. Fin dai primi accordi lo stile chitarristico di Mittino evidenzia grande consonanza con Robert Fripp. Non a caso durante l’intero set verranno presentate ben tre cover dall’album con Sylvian, ‘The First Day’. Parliamo di ‘Firepower’, ‘Brightness Fall’ e ’20th Century Dreaming’. C’è spazio anche per ‘Photographic’ dei primissimi e celeberrimi Basyldon Boys, mentre l’unica incursione in territorio italiano è l’efficace rifacimento di un vecchio pezzo di Enrico Ruggeri, ‘Polvere’. Tutto il resto del set è anglofilo fino al midollo per attitudine oltreché per idioma. Gli inediti pagano riconoscente pegno agli amori di gioventù e, come detto, a una poetica eletcro piacevolmente spinta e proto metropoli. E se anche di provincia si parlasse, sarebbe comunque la suburbia di un impero sterminato. La cosa non deve stupirci, perché Andy è sì talentuoso musicista ma più spesso artista, principalmente visivo, ad ampissimo raggio. Il nome stesso della nuova band è mutuato dalla factory polimorfa di cui è padre da molti anni in quel di Monza. La cosa più lampante della performance di stasera è che i ragazzi non sembrano fingere o recitare un copione fitto di clichés da consumati poseurs, ma paiono interagire e divertirsi sul serio, come una vera band. A fine set sarà questo il vero valore aggiunto della loro generosa e sentita esibizione che li farà vincere di non poche lunghezze su dubbi e diffidenze. E detto per inciso è un concerto che merita davvero di essere visto, perché a onor del vero il live giova moltissimo a questo tipo di pezzi e sonorità che se nelle versioni in studio possono sembrare algide dal vivo esaltano l’elemento fisico e tribale del bpm che ci pulsa dentro, appartiene e seduce tutti nella foresta pluviale come al Berghain Panorama. Notte fonda, tempo di danze. Andy al bancone del bar parla amabilmente con i fans, il dj appena salito in cattedra arringa la folla e sembra un hooligan dopo un gol decisivo mentre i superstiti rimasti in pista sono un unico, denso, teso, muscoloso movimento. Dance dance dance dance dance to the radio. top

 

BETTI BARSANTINI
@ Wadada Lab Spadarolo di Rimini 7 Aprile 2012 articolo pubblicato su Nerds Attack!

C’è questo piccolo libro di Charles Bukowski, “Shakespeare non l’ha mai fatto”, che racconta di una trasferta europea dell’autore statunitense insieme alla compagna Laura. In breve si tratta del diario di bordo di un viaggio risolutore verso le radici teutoniche del nostro nel vecchio continente che, tra le varie cose, vede lo scrittore impegnato anche in alcuni readings. Una delle cose che più colpisce Bukowski è che la maggior parte di quelli che escono di casa per andarlo a sentire leggere i suoi racconti, le sue poesie si siedono di fronte a lui e tengono in mano i suoi libri. Non hanno semplicemente sentito parlare del suo lavoro. Non si limitano a conoscerlo, magari anche molto bene. Lo hanno fatto loro. Lo posseggono, fisicamente. Al concerto di Alessandro Fiori e Marco Parente, aka Betti Barsantini, mi domando quanti degli astanti in sala possano dire lo stesso, quanti abbiano in salotto, nel cruscotto “Attento a Me Stesso” piuttosto che “Neve (Ridens)”. Lo penso verso la terza, quarta canzone in scaletta. Ed è un pensiero argenteo e fulminante che arriva quando ormai…sì, quando ormai lo spettacolo, sebbene appena iniziato, non lascia spazio alcuno a dubbi sull’autorevolezza e la bontà di quel che sta accadendo per mano di questi due signori. Siamo sul palco del Wadada Lab di Rimini e i nostri intrecciano un ping pong serrato di canzoni che eravamo abituati a sentire nei rispettivi dischi solisti, ma che stasera vengono riproposte a quattro mani. E non si limitano alla classiche versioni menestrello voce e chitarre assortite, nossignore. Ci sono parti di violino, tom, timpani e piccoli loops che tutto fanno venire in mente tranne che l’effetto base. Ed è un bene, a mio modesto parere. I brani – che si tratti di “Wake Up”, “Succhiatori”, “Fuori Piove”, “C’era una Stessa Volta”, storie di maiali alla specchio o Reagan laccati poco importa – questa sera accompagnano in un bellissimo luogo degno di un paesaggio lunare dipinto da Bacon chi ha voglia di sbirciare, di stare ad ascoltare. Perché ne basta uno, tra gli spettatori, che abbia voglia di farsi sedurre. Almeno uno mi confida Parente alla fine del set, e tutto acquista senso. Io penso che talenti come Marco e Alessandro dovrebbe veramente essere considerata alla stregua di una primizia culinaria rara. Cioè la gente dovrebbe uscire di casa e dire stasera vado a mangiarmi qualcosa di buono, per una volta vado davvero in un ristorante come si deve. Che, beninteso, non c’entra nulla con le posate d’argento e la carta dei vini scritta in francese. Fiori e Parente, novelli Felix Ungar e Oscar Madison, trovano la loro sintesi artistica nella proiezione del mezzobusto più famoso dei notiziari toscani e di un codice narrativo appeso ai satelliti. La cosa potente di questi due compari è che la loro singola poetica, vista contemporaneamente sul palco, presenta grandi consonanze e altrettante complementarietà. Le classiche due facce dell’unica medaglia. L’una apparentemente più ludica, leggera e aliena. L’altra più concettuale, scientifica e chirurgica. Ma entrambe indispensabili e preziose. Non solo. I due si reggono il gioco da complici consumati. Quando pensi di aver capito chi è quello che più fa sorridere e quello che più fa riflettere, subito devi rivedere la tua posizione. Noti un pò di malinconia dove non c’era, trovi un pò di gioia dove non si sospettava. Niente paura. Una volta inquadrata la situazione, tutto torna fortunatamente fuori posto un attimo dopo. La personalità bipolare di Betti si rincorre, si sfugge, si ritrova sul palco alternandosi tra Jackill e Hyde, travestendosi infine da insospettabile maggiordomo. Ve l’avevo detto che si mangiava bene. Dimenticavo. C’è anche questo film di Woody Allen, “Io e Annie”. Diane Keaton fa la cantante jazz in un club dove, più che le canzoni e la voce, si sentono squilli di telefono, brusii, rumori di stoviglie e comande a pieni polmoni tra i tavoli. Ma Annie continua a cantare. Perché sa che la canzone è bella. E perché in sala, ad ascoltarla, c’e Woody. Al primo appuntamento, ma già innamorato. top

 

FORMAZIONE MINIMA
Spettacolo Primo (2011 PMS Studio) articolo pubblicato sulla webzine Nerds Attack!

Giorgio Gaber nato Gaberscik è stato un signore che giocava a carte con Franco Battiato e Ombretta Colli e un ragazzino che andava a sentire Franco Cerri alla Taverna Messicana di Milano. Ma i più, certamente, lo ricordano per il suo teatro, le sue canzoni, le sue storie. Storie di un uomo figlio del rock, del jazz di Gringolandia e del boom economico, spesso Italiano, e non necessariamente imprigionato nella cornice di una foto in bianco e nero. Alcuni continuando a raccontarle, a farle loro quelle storie. La penna brillante di Andrea Scanzi ad esempio, oppure le tavole dei palchi di Giulio “Estremo” Casale, o ancora le maschere Di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Come loro e tra i tanti figli legittimi del codice non fanno eccezione i Formazione Minima, titolari di quello che fu il primo tributo all’opera di Gaber, quasi dieci anni fa. Lorenzo Bartolini e Lorenzo Gasperoni – cantattore il primo, chitarrista il secondo – dopo anni di acceso e sincero amore tributato al nostro, giungono con ‘Spettacolo Primo’ all’opera d’esordio composta da inediti. E sebbene lo spirito del Signor G continui ad aleggiare in molti degli episodi del disco come un padre premuroso lo scatto in avanti, a latere di una figura così ingombrante c’è. La spina dorsale del tutto è saldamente in mano a voci e chitarre, ma la line-up è ricca di ospiti tra cui Tommy Graziani, figlio del mai troppo compianto Ivan, alla batteria. Lungo le quindici tracce dell’album spuntano riflessioni urbane e quotidiane sul vivere di molti, in circolo nel loop di questi nostri tempi e delle relative regole sociali. Vengono in mente, oltre ad alcune consonanze con un certo rock e cantautorato nostrano di qualche anno fa e alcune derive iberiche e Gilmouriane anche delle immagini, delle fotografie. Ecco allora che il pensiero va a “L’aria Serena dell’Ovest” di Silvio Soldini, oppure “Impiegati” di Pupi Avati. I suoni sono asciutti ed efficaci, i testi sovente sconfitti e definitivi, non per questo privi di sprazzi di bellezza luminosa. Da che mondo è mondo – e in ambito artistico la cosa vale almeno doppio – per emanciparsi e trovare la futura identità è necessario salutare chi ci ha generato. La Formazione Minima con ‘Spettacolo Primo’ lo ha capito, muovendo con riconoscenza e coraggio il passo verso un nuovo destino.  top
MAURO ERMANNO GIOVANARDI + CESARE MALFATTI
@ Teatro Novelli Rimini 19 Luglio 2011 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Si legge Mauro Ermanno Giovanardi, ma si scrive ancora Joe. E il cerchio si chiude. Esattamente nel punto dove questo lungo e prezioso giro d’Italia partiva, lontanissimi anni fa. Ma andiamo con ordine. Rimini, Teatro Novelli. Mauro Ermanno Giovanardi presenta l’album ‘Ho Sognato Troppo l’Altra Notte?’ seconda fatica solista fresca fresca di pubblicazione e reduce dalla bella trasferta Ligure in quel di San Remo. Il bouquet di rose gialle e bocche di leone pare appena sbocciato, ma Giovanardi è in sella da decenni. La sua è davvero una delle figure più longeve e significative del rinascimento musicale Italiano fine ottanta primi novanta. In sella direi sia la definizione più indicata anche per quel che lo riguarda oggi. C’è molto west nelle sue “nuove” canzoni, molte brezze morriconiane e, in definitiva, molta Italia con gli stivaletti di pelle bassi le miniskirts appena comprate in Kings Road. Ed è un amore sincero, quello di Mauro. Una nostalgia dolce, mai triste. Insomma gli anni sessanta, Milano con e senza valigia, quel festival dei fiori e quei varietà della Rai non sono solo un bel ricordo da queste parti. Il set, oltre ai pezzi inediti, presenta diverse belle covers tra cui ‘Inverno’ di De Andrè, ‘Stelle Buone’ della Donà, ‘Se Perdo Anche Te’ del Gianni nazionale e ‘Bang Bang’, vero evergreen amato e avvistato un pò a tutte le latitudini, dai dischi della Zanicchi ai film di Tarantino. Forse dunque non è un caso che, tra un bis e l’altro, ci sia spazio anche per alcuni intermezzi strumentali in odor di celluloide. Sul palco sono in quindici tra chitarre, bassi, batterie, tastiere. Non mancano archi e fiati, che veri e dal vivo fan sempre la loro porca figura. E il pubblico apprezza, caloroso e numeroso. Il vinile gira dunque, e se chiudo gli occhi va decisamente a 45 giri. Tutto fila liscio liscio, come fossimo in gita domenicale con gli stereo otto nel cruscotto e il mangiadischi sul sedile posteriore, pronto per prato e picnic. Ma l’imbuto della spirale si stringe. E la puntina si incanta. Qui è doveroso da parte mia una piccola nota: sono personalmente molto affezionato alla prima produzione dei La Crus. Per cui quando Giovanardi pesca dal cilindro – e dal suo, dal mio passato – ‘Come Ogni Volta’ le gambe mi fanno giacomo giacomo. Son quelle cose difficili da controllare. Al cuor non si comanda vale davvero. Tipo gli U2 nello Zoo Tv Tour quando dopo i pezzi nuovi, pur belli, fanno ‘New Year’s Day’. Oppure i Depeche Mode ‘Stripped’. Sylvian ‘The Ink in the Well’. Cohen ‘Famous Blue Raincoat’. Non c’è niente da fare, viene su tutto. Perché i La Crus hanno avuto l’inestimabile merito – e in tempi non sospetti – di sdoganare culturalmente i grandi maudits della tradizione italiana che oggi moltissimi giovanotti, in buona e in mala fede, rivendicano come influenze antiche e imprescindibili. E Joe, nello specifico, è stato pioniere nel ridar lustro alla figura dell’interprete tout court. I La Crus sono stati i primi a restituire alla canzone d’autore – e d’amore – il ruolo di regina e non di serva. I primi a fare le cover di Tenco e di Ciampi, a cantarle nei concerti, inciderle nei dischi, restituir loro vita e attenzione popolare. A guardare dritta negli occhi una certa Italia e a darle del tu, prima di tutti, ci hanno pensato Malfatti e Giovanardi. Certo, non erano soli. Ricordo ad esempio l’altra costola dei Carnival of Fools, i meno fortunati – ma non meno bravi – Santa Sangre. E le varie Cristina, Manuel, Cristiano e compagnia bella. Ma davvero i La Crus furono quelli che più felicemente, apertamente sposarono la causa. E molti, oggi, devono loro tantissimo per quella tempestività. Anche inconsapevolmente. Poi a un certo punto nelle vite di chiunque le cose mutano e le strade si separano, perché ognuno ha la sua storia personale che non si ferma. Ed è giusto, giustissimo così. Ma è difficile per me stasera non mescolare le carte e le coppie, non perdere di vista la posta in gioco. Perché in principio accade che Cesare Mafatti, con il suo primo set da cantautore – delicato e dal sapore più capitolino che meneghino – apra lo spettacolo del fratello Mauro. E anche da questo si capisce che la serata sarà simile al pranzo di Natale di una famiglia allargata. E ancora accade che nei bis Cesare ritorni sul paco con Joe e che insieme a loro, sul palco, resti anche Paolo Milanesi che forse ai più distratti era sfuggito, nascosto nel reggimento di musicisti. Ma Stasera, ora, c’è anche lui. Tò, i La Crus. Al gran completo. Quella chitarra, quella tromba, quella voce si chiamano La Crus. Dentro me’, poi ‘Il Vino’. Gli ultimi due proiettili della serata. Spera. Mira. Spera.  top

 

 DIMARTINO + DANY GREGGIO
@ Parco delle Terme Fratta Terme 13 Luglio 2011 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Bando alle ciance ragazzi. La macchina del tempo esiste davvero. Viva viva il dottor Emmett Brown e l’invenzione del flusso canalizzatore. Soprattutto stasera. Anche l’autoradio, a modo suo, tenta di suggerirmi qualche indizio sulla natura di quel che mi attende trasmettendo uno speciale – con tanto di intervista a Tony Pagliuca – su Collage, l’album delle Orme appena entrato negli anta. Ma io fatico a cogliere. Colpa del caldo forse. Pazienza. Ormai siamo partiti e quasi giunti a destino. Sì perché stasera si fa un viaggetto di tre/quattro decadi e si parcheggia l’auto a cavallo dei tardi sessanta e dei primi settanta. E’ il tredici luglio duemilaundici e siamo in Romagna al parco delle terme di Fratta, proprio accanto al Grand Hotel. E c’è questo festival, Sorgenti Sonore, che ospita i concerti di Antonio Di Martino e Dany Greggio. Ma sembra davvero di essere in una sequenza di “8 1/2″. E ci credi. Ci credi come credi nei sogni e nel cinema fatto di autentico argento. Ed Wood, quello vero e quello di Tim Burton. Inception in bianco e nero. Comizi d’Amore. Uccellacci e Uccellini. Ma soprattutto tanto Fellini. Perché stasera Dany e Antonio sono in famiglia. Stasera si mescola tutto e nel caleidoscopio non si distinguono i padri dai figli, chi insegna da chi va a bottega. Mi guardo intorno. Seduto accanto c’è Piero Ciampi sornione. Due file più in là Luigi Tenco, placido e luminoso. Leonard Cohen che si mangia un gelato. Rino Gaetano gambe lunghe e braccia conserte. Alberto Fortis sorriso sgargiante e occhiali da sole. Lucio Dalla defilato e vigile. Bonzo Bonham, Greg Lake, Keith Moon, Nick Drake. E con loro molti altri. Son tutti lì in platea, allo specchio. A godersi lo spettacolo, applaudirsi e rimirarsi. Mescolati tra gli astanti, i villeggianti e i clienti delle terme amici di Mastroianni. Primo Tempo. Dany Greggio senza i suoi Gentlemen, in nuda e spietata solitudine, per un mini set all’arma bianca che non fa prigionieri sopra e sotto il palco. Bravissimo, in guerra così si fa. Una manciata di canzoni dall’album d’esordio, un inedito e la cover de L’Incontro, scritta da quel tizio di Livorno che aveva tutte le carte in regola. In questa veste scheletrica, ultra minimal e barricadera Dany mostra le ossa bianche delle sue canzoni davvero rare, del suo teatro di interprete antico e flessuoso, ballerino e anarcoide, del suo talento di autore riconosciuto e accolto nei dischi di La Crus e De Andrè Junior. In uno dei suoi pezzi più potenti, ‘Sisifo’, il lamento si trasforma in ululato vero e proprio che alcuni non comprendono. Ancora Snaporaz, stavolta a Studio Uno insieme a Mina e voilà, la pantomima è completa. Con buona pace per chi non la riconosce. Secondo Tempo. I Dimartino sono in tre e a volte sembrano cinquanta. Angelo Trabace e Giusto Correnti fanno capo ad Antonio Di Martino, cantante, bassista, chitarrista e autore. Ok, ok, c’è spazio anche per pianoforte, tastiere, batteria, piccole fisarmonichette, melodiche e chitarrine varie ed eventuali. Ma l’impostazione, in ultima analisi, è davvero ‘70, basso piano e batteria. E davvero non si può dire che i ragazzi difettino in vitalità. La loro energia viene perfettamente miscelata a melodia e testi poetici, acuti e popular, che fanno dell’ironia un efficace stiletto. Una sorta di indie – nelle parole e nelle musiche – che paga comunque pegno alla tradizione cantautore più radicata. E sembra farlo non troppo malvolentieri. Un pastiche strano e interessante di provincia, metropoli e intimità apolide dei sentimenti. Tanta infanzia e tanta adolescenza coi pruriti dei primi baffi. Favole urbane, surreali e concrete al tempo stesso. E gran belle canzoni d’amore, questo va detto. Non mancano le covers, ben due: ‘Hobby’ di Tenco e ‘Sobborghi’, ancora dì quel Piero detto Litaliano. E poi un po’ di politica, di Albione, di Battiato. Ci sta. Bravi bravi ragazzi. Flashback, che per questa sera sarà perfetto finale. A metà set si alza un poco di vento e due ragazzi dell’organizzazione spostano il pannello che fa da sfondo al palco per evitare che seppellisca inavvertitamente il batterista, hai visto mai. E l’immagine che mi appare è davvero magica: foglie sul palco, luna nel cielo blu scuro e profondo, i capelli di Antonio spettinati e Dany che mentre gironzola nella sua giacca bianca e nelle sue spalle strette sembra proprio il Toby Dammit di “Tre passi Nel Delirio”. Sipario.  top

 

 JOAN AS POLICE WOMAN + VASI & MEINIER
@ Corte degli Agostiniani Rimini 31 Lluglio 2011articolo pubblicato su Nerds Attack!

E’ strano. Alla fine di tutto, a luci bianche in platea, dopo l’ultimo bis e l’invito di Joan al banchetto del merchandising per saluti, foto, autografi e far cassa coi dischi è forte la sensazione che il suo set abbia completo senso se abbinato a quello di apertura di Vasi e Meinier. E viceversa. Come se le stelle, indipendentemente dalle traiettorie di volo, avessero comunque bisogno, per non andarsene del tutto via, di un àncora ben piantata a mò di palloncino legato al polso, cavallo imbrigliato fuori dal saloon. Perchè quel che non riesco a darvi stasera, caro pubblico, potrebbero le mie dame di compagnia. E quello che per tempo, voglia, concessione oppure indole non possono loro, state pur tranquilli che lo dirò forte io, poi. Forse le cose non stanno esattamente così. Chissà. Ma secondo me Joan questa regolina la conosce benissimo. Perchè è nella sua interezza, nella sua organicità che la serata rotola nella direzione giusta. In molti apprezzano l’apertura di Vincenzo Vasi e Malvina Meinier, soggetti lunari e stranieri in terra, del tutto affini e confidenti tra i pianeti. Non somprende la notizia che i due stanno per realizzare un album insieme prodotto proprio dal festival di musica e letteratura Assalti al Cuore. Vincenzo, meraviglioso e incestuoso musicista, pare davvero un uomo di scienze e altri tempi. Il bianco del camice travasato nei capelli elettrici. Lo sguardo scarlatto come la camicia. Stasera canta, suona il theremin, filtra e manipola. Malvina, appena nata, francese e preraffaellita, canta, suona il piano e gioca con campanelli e loop station. E’ docile nella voce e nel candore, ma sospetto spigolose scatole cinesi nascoste sotto il velo. Entrambi hanno gusto per misura e sottrazione. Si accompagnano, si ascoltano, si sorridono e ci introducono in un luogo dall’estetica perfetta, a cavallo dei secoli e lontano dalle loro carni, dalle loro tempeste, in perfetta simbiosi con le proiezioni oniriche e dolci di Bertrand Sallé. Poi arriva Joan. Con lei Parker Kindred alle percussioni e Rob Gentry a tastiere e Moog bass. La cantautrice statunitense- i cui legami sentimentali e professionali, presenti e passati, fanno morire d’invidia legioni di ragazzine e musicisti – prende possesso del palco con fare quasi virile, traghettandoci con sicurezza e confidenza attraverso un set fondato su groove 70’s black oriented e canzoni d’amore made of flesh and bone. E tutti e tre i ragazzi sul palco sembrano davvero a loro agio on the dance floor. Quando poi la signorina abbandona le tastiere per imbracciare la sua Telecaster nera la metamorfosi felina è completa, tanto che sul palco divenuto foresta non c’è spazio che per loro due. E come ogni fiera che si rispetti, sono proprio questi artigli più misurati a lasciare il segno più profondo. Assalti al Cuore, festival di musica e letteratura che da sette anni scommette – e vince – con le sue scelte chiude col botto l’edizione 2011. E Joan – curioso incrocio tra alcuni nervi di Elena Bucci e alcune frequenze di Diamanda Galàs – ruba un galeone della flotta Rogue’s Gallery e salpa per le sue Indie. Una musicista che ha capito come spesso l’energia delle onde può essere più importante e magnetica della terra ferma. Release your inner animal! Scrive da qualche parte sul suo sito. E pare davvero essere così. Almeno per lei.meno per lei.  top

 

 SANTO BARBARO
@ Lorna (2010 Ribèss Records) articolo pubblicato su Nerds Attack!

Prendi uno come Santo Barbaro. A guardarlo, a parlarci un po’ non diresti che nelle tasche nasconde tutte quelle conchiglie scheggiate, tutti quei rasoi. E allora gli stringi la mano tranquillo. In realtà le sorprese non mancano. Pieralberto Valli licenzia un album di parole da scrittore, canzoni da cantautore, pennellate trompe l’oeil e paesaggi sonori molto più orientali di quel che pare e scompare tra urbe e onde. Arriva a bordo del tappeto volante Francobeat Naddei. Ed è un bene. Non solo perché porta con sé un magnifica ventata di elettronica direttamente dai deserti di questi nostri tempi apolidi, ma soprattutto perché toglie consistenza, sfoltisce le fronde, sottrae peso, allenta le maglie del discorso. In breve, aggiunge spazio. Sulla scialuppa anche Diego Sapignoli, felicemente manipolato ad hoc per la causa. E tutto fila via. L’album poi riesce anche in un altro matrimonio: far convivere una scrittura classica fatta e finita con un sottotesto musicale ben poco tradizionale, almeno su suolo italico. E in un pezzo come ‘Naufragio’ c’è spazio anche per delle aperture sintetiche che non avrebbero sfigurato in un disco pescato dagli invadenti anni settanta nostrani. Anni di meraviglie, per carità, che però chissà per quanto tempo ci porteremo sul groppone, prima di riuscire a scardinarli definitivamente dalle ali. Se ci riuscissimo, almeno in parte, credo che i papi laici di quel passato apprezzerebbero sinceri. Ma ‘Lorna’ pare averlo capito. Per Barbaro questo pastiche di vecchio e futuribile non è comunque una novità. Chi conosce ‘Mare Morto’, l’album d’esordio, forse ricorderà in alcune ritmiche qualche contraffatto ammiccamento a Dj Shadow. Ottimo. Anche perché la voce più fertile di Pieralberto sboccia nei fogli. Opinioni personali, beninteso. Ma già che ci sono mi concedo anche un piccolo affondo: se riuscisse più spesso nel mettere mano alle finestre la luce e l’equilibrio della sua poetica vincerebbero ancor meglio, senza peraltro bruciare le preziose ombre del suo codice. Andate ad ascoltarvi ‘Tori Sterili’ e ‘Finisterre’ e capirete. Less si more, non mi stancherò mai di dirlo. Ma Valli pare averlo capito. Da tempo. Dimenticavo: il disco è bellissimo.  top

 

 YANN TIERSEN + LONSKY & CLAßEN
@ Velvet Rimini 27 Novembre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Lo dico subito così mi tolgo il pensiero: mi son piaciuti di più Lonski & Claßen. Il set di Tiersen è vivido e vitaminico e il suo quintetto sul palco sembra davvero una squadretta di calcetto di mercoledì sera, motivata ed agguerrita. Un concerto comunque di fatto non privo di sontuosità, densità e reminiscenze vagamente affini ai signori Crimson & Floyd, per non citare altri loschi professorini più à la page e meno attempati. Però, ragazzi miei, a me il cuoricino non si scalda. Sarà che stasera a Rimini fa più freddo che a Berlino, chissà. Vero invece che qualcosa a livello nervoso e muscolare reagisce, perché mr Lenin e compagni, a parer mio, si dimostrano più competenti in materia di chirurgia che di banalissimo calore umano tout court. E spingono, scalpellano, scavano in quella direzione, seguendo un vettore di direzione opposta alla superficie e dritta verso il nocciolo di fusione del pianeta. In tutto questo ribollire non mancano alcuni efficaci e calibrati squarci di vuoto, assenze di spessore e consistenza in favore di alcune scudisciate di violino e decompressioni, depressurizzazioni dell’onda d’urto che hanno l’effetto di bolle d’aria che si rompono sulla superficie borbottante del magma elettrico. Però, nel complesso, al di là dell’effetto piacevolmente detonante di alcune cavalcate ritmiche e le impennate stupefacenti e narcotiche delle chitarre noisyquantobasta per accontentare gli estimatori dei vari Sigur, Blackspeed, gioventù sonica sotto valeriana e teste radio con Hitler hairdo il sangue, ragazzi miei, continua a restare tiepidino. Dei miei vincitori Lonski & Claßen non dirò alcunché se non che nel loro set minimale e a suo modo anche fragile batte forte quel muscoletto rosso bruno fondamentale per ognuno di noi che si impone su tutto il resto e si fa riconoscere – e cercare – più di tutta la materia grigia della terra. E pensare che son tedeschi. Sì, stasera a Berlino fa meno freddo che a Rimini. E Crimson & Floyd sembra proprio il nome di uno studio legale. top

 

 BALMORHEA
@ Bronson Ravenna 30 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Dopo aver perduto la loro esibizione sotto casa in quel di Mondaino di Rimini eccomi qui, un anno e mezzo dopo, al mio primo confronto dal vivo con i Balmorhea. Allora si trattava di Dimora Landscape #2 per il festival di musica e letteratura Assalti al Cuore, oggi del Bronson di Ravenna. E’ un po’ come se il concerto dei Balmorhea cominciasse dalla fine. Quando tutto quel che conta o quasi, si presume, è stato detto durante l’intero set. Quando si avvicinano i pezzi di chiusura e si prepara il terreno ad un paio di encores. Quando l’enfasi sinfonica, appena prima di invischiarsi nella melassa, lascia un poco di posto anche ai nervi. Quando ci dimentichiamo che quei ragazzi sul palco, a volte, somigliano al nostro prof di educazione civica e quegli stessi ragazzi non fanno nulla per ricordarcelo, anzi. Quando la foto resta in bianco e nero. Quando le note sono poche, rarefatte, e non solo celebrative. Quando le canzoni non sono soltanto luce né aspirano esclusivamente a sublimarsi nella gioia ma galleggiano a mezz’aria, vengono anche trattenute, come una zavorra preziosa, dalla gravità di un corpo vivo fatto di carne e sudore. Ecco, è allora per me che qualcosa accade davvero. E’ allora che la musica dei Balmorhea vince su tutta la linea, e il cuore si scalda. Intendiamoci, il concerto è bello e il locale gremito. Il pubblico tutto pare molto soddisfatto ed anche la band di apertura, ‘The Ghost of Bell Star’, sembra essere piaciuta ai più. Nella musica dei Balmorhea c’è qualcosa di accademico e jazzy. Il vibe che si avverte è vagamente agreste e mormonico. Come per ‘Arcade Fire’, la sensazione di coralità, familiarità sul palco è quasi letterale. E’ un rito collettivo, e i Balmorhea celebrano con noi la loro storia, certo. Però io – e qui partirà da qualche nube un fulmine sicuramente – almeno dopo il primo concerto, mi sento più al sicuro nei loro dischi. E’ una sensazione, ma secondo il mio modestissimo parere la delicatezza, eleganza, forza e bellezza della loro voce viene preservata e intesa meglio se chi si avvicina resta comunque un poco a distanza. Vale spesso anche per alcuni dipinti. Ho scritto questo pezzo ascoltando in loop quel che viene riprodotto nella home page della band, e la mia impressione di ieri sera ha trovato riscontro. All’uscita, confrontandomi con amici incontrati per caso, mi rendo conto che qualcuno, sottovoce, condivide questo pensiero. Un brusio clandestino, quasi timoroso di scheggiare con le unghie questo evento che, apparentemente, stasera pare mettere d’accordo tutti e inibisce un poco la piccola e parziale critica di alcuni ammutinati. Ma io credo davvero che nella penombra la musica di questi ragazzi scintilli più che a mezzogiorno. I Balmorhea sono americani. Anzi, americanissimi. Qualche vita fa ho avuto la fortuna di conoscere un altro ragazzo americano. Tra le molte cose di lui che non dimenticherò, una canzone che diceva“love is not a victory march, it’s a cold and it’s a broken hallelujah”. In quelle parole rubate ad altri brilla ancora prepotente una grandissima verità.  top

 

HUGO RACE AND THE FATALISTS
@ Magazzino Parallelo Cesena 27 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Il Magazzino Parallelo è un locale nascosto tra i padiglioni dell’ex mercato ortofrutticolo di Cesena che per estetica e atmosfera sembra smontato direttamente dai chioschi del Mauerpark di Berlino e rimontato pari pari in terra di Romagna. Questa sera, per la data zero che accompagna l’uscita del nuovissimo disco intitolato ‘Fatalists’, c’è Hugo Race. La scelta del luogo non pare casuale. L’album è stato registrato in regione al Cosabeat studio dal talentuoso Francobeat Naddei, e metà della band è costituita da altri due indigeni di lusso, Antonio Gramentieri alle chitarre e Diego Sapignoli a percussioni e batteria. Completano il combo il contrabbasso di Erik Van Loo e la violinista Vicky Brown. Al Magazzino siamo in tanti, pochi seduti molti in piedi, e siamo tutti curiosi. L’inizio strumentale del set rivela da subito la spina dorsale della serata: chitarre oniriche e spigolose ma non gelide, basso pulsante e serpentino, violino dolce e melanconico e percussioni ora secche e nervose, ora dilatate e avvolgenti. E tanto, tantissimo deserto. La cosa diventa lampante quando lo stesso Race raggiunge la band, la sua chitarra e la sua voce fanno il loro ingresso e parte la cover di ‘Where Did You Sleep Last Night’, molto vicina per mood e retrogusto alla versione sul primo album di Mark Lanegan. E via, il warm up è partito e a giudicare da come rotola tranquillo e sicuro davvero non si direbbe uno spettacolo non ancora rodato. Contrariamente ad altri concerti di Race visti in passato stavolta non avverto cali di tensione lungo la scaletta e la sua voce, pur sepolcrale e seducente secondo copione, si sposa felicemente con un chitarrismo puntuale e misurato che non risparmia rare ma efficaci, ficcanti impennate adrenaliniche. E la band è davvero in grande spolvero e risonanza. E poi datemi pure del visionario, ma io stasera sul palco non vedo solo mestiere, eleganza tenebrosa e crepuscolare da cantautore agée, maudit e prêt-à-porter. C’è anche energia più militante e primitiva. Tom Verlaine, Patti Smith. Ma è un vigore sempre cerebrale, a volte forse un pochetto chirurgico. A vincere è un’atmosfera di fondo, una sorta di statement, di codice che si impone sulle singole canzoni quando le canzoni, per un’autore, restano un poco l’abc da cui tutto il resto principia e fruttifica. Questo depistare, dilatare, è una caratteristica piuttosto ricorrente nella produzione di Race tanto da far sospettare che ci sia una volontà precisa in questa direzione. E la cosa ci piace, non dico di no. Però che bello quando i pezzi si impongono nella loro essenza e e potenza iconoclasta e nel cuore ci rimane solo la parola! In fondo, gira e rigira, lì davanti c’è ancora uno che se la canta e se la suona armato di quattro accordi. Nasce tutto da lì. E ci piace altrettanto. Quella scintilla ci piace ancora.  top

 

ENRICO FARNEDI
@ Nero Su Bianco Cesena 26 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Ah, i cartoni animati. I fumetti. Mandrake e Braccio di Ferro. La celluloide. Asta Nielsen prima e Il cinema anni trenta dopo. Alfa Alfa e le simpatiche Canaglie. La melancholìa travestita da boogie. Il British pop di cinquant’anni fa. Il fascino rassicurante della cucina domestica. Il cosmo infinito della vita di provincia. Gli anni ottanta, quasi tutti. I primi novanta, solo quelli belli. E bla… bla… bla… Continuate all’infinito su questo sentiero e arriverete al campanello di Enrico Farnedi. Suonate. Lui è in casa ad aspettarvi con tè e biscotti. C’è poi in giro questo video di Fabio KoRyu Calabrò intitolato “Lettera all’Autore di Lena” che sul Farnedipensiero la dice lunghissima. Date una sbirciatina se vi va e capirete forse meglio delle mie parolacce. Anyway, facciamo coming out: Enrico è un folle – azzardo potenziale serial killer – che camuffa le scintilla rivelatrice dello sguardo dietro un paio di occhialetti proto Clark Kent e sotto un ciuffo corvino messo lì per distrarci. Ed è solo un caso – fortuito e fortunato – se non ha ceduto al lato oscuro della forza ed ora si ritrova costretto suo malgrado a bombardarci con tutto quello che c’è nel suo capiente, generoso cuoricino. Ce ne fossero come lui. Perché Enrico salta nell’abitacolo, si allaccia il casco in corsa e parte a motore già avviato. Lui parte, sciarpa al vento e incurante dei rischi, manco fosse Isadora Duncan. E punta dritto verso di noi. Invece di allontanarsi viene verso di noi. Ci lasceremo travolgere o ci faremo schivare? L’arte di Farnedi è tanto preziosa – controllare curriculum please – quanto umile, e per quel che mi riguarda può tranquillamente tatuarmi i pneumatici sulla schiena. Non è questo privilegio da concedersi a tutti gli uomini di talento. Prendi i francesi della Nouvelle Vague. Donne très charmantes, film spaziali, registi brillanti. Tu lì totalmente sedotto a dirgli magnifique, loro a risponderti con un sopracciglio alzato naturellement. Che lo sanno già. Spocchia insopportabile che gela il miocardio, annulla tutta la bellezza e trascura l’essenza di ogni forma creativa: la comunicazione. Con Farnedi non si corre questo rischio. Lui moltiplica e restituisce ogni grammo di energia che gli dai. E la sensazione è speciale. Propongo ufficialmente il riconoscimento medico dell’endorfina Farnedi. Ora però rientro nei ranghi e mi tuffo nella microsintesi dei fatti stile novantesimo minuto. Quello di stasera è il concerto di presentazione dell’album ‘Ho Lasciato Tutto Acceso’. Secondo me non è fondamentale soffermarsi troppo sul fatto che disco e relativo live ruotano intorno all’ukulele perché Enrico scrive e canta da paura. Sul palco del Nero su Bianco, stasera, oltre a Farnedi una sezione ritmica agile e attenta e un fiore gonfiabile gigante “alla sua prima uscita pubblica”. L’inizio del quartetto è un poco incerto forse a causa dell’emozione, poi tutto decolla alla grande. Alcuni pezzi sono davvero toccanti e non voglio dire quali perché tanto quando ascolterete il disco lo capirete da voi. Le cover di ‘Lonely Planet’ di The The – sì Enrico, ‘Dusk’ è l’album perfetto anche per me – e ‘I’ll See You In My Dreams’ non fanno prigionieri. Risate, lacrimucce, applausi ed inchini. Tutto autentico. Fatevi un favore, procuratevi ‘Ho Lasciato Tutto Acceso’. E se vi avanza del tempo e vi fidate date un’occhiata anche a un film intitolato “La Sposa Turca”. Mescolate il tutto e capirete. The world is too big and life is too short to be alone.  top

 

ONE DIMENSIONAL MAN
@ Bronson Ravenna 23 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Un atto di sabotaggio esoterico alla matrice. Ecco, per quel che mi riguarda la recensione di questo concerto potrebbe tranquillamente terminare anche qui. Non mi sento di dire molto altro a proposito di un live act già visto e discusso da moltissimi che per equilibrio, determinazione, presenza, sotterranea femminilità e onda d’urto merita una delle nostre preziose sere. Andiamoci. Dany Greggio – amico e compare di Pierpaolo Capovilla nel lontano esordio comune con gli Holy Guns Inc ma anche cantante, attore, icona di Motus Teatro per oltre un decennio, autore per La Crus e Cristiano De Andrè, magnifico cuoco e padre di un figlio biondissimo… può bastare? – mi introduce nelle stanze affrescate di questo palazzo che si ostina stoicamente a non crollare, che continua a galleggiare. E’ un labirinto di siepi antiche, e c’è della autentica bellezza. Nei camerini la band ci accoglie con estrema cortesia. A fare gli onori di casa un Capovilla sulfureo e magnetico, dall’eleganza raffinata e primitiva. Attualmente, nel cosiddetto panorama musicale italiano, la posizione dei ODM è decisamente di favore – così come quella dei fratellastri tra gli orrori del teatro – e credo che oggi come oggi nemmeno Tutto Uncinetto contesterebbe il loro lavoro. L’aria che tira intorno a loro mi ricorda un poco quella che si respirava dieci, quindici anni or sono con la signorina Kuntz. E questa devozione supina forse non è un bene. Ma – perché c’è sempre un ma in questi casi – trovo totalmente lecita, meritoria e sudata la loro posizione. Dunque chapeau. Perché ci credi. Guardi un live dei ODM e a quello che accade sul palco ci credi. Bottigliero, Favero e Capovilla sono i templari elettrici di questo nostro tempo, di questo nostro crepuscolo. Almeno per una notte. E Dany, la stessa notte, il mio Virgilio.  top

 

ANDRE WILLIAMS
@ Georg Best Club Cesena 22 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

La curiosità è lecita: riuscirà Andre Williams, classe ‘36, leggenda punk blues nera e americana a trasformare Montereale di Cesena, per una sera, in una provincia dell’Impero di Alabama? Esco di casa, salgo in macchina, mi infilo in autostrada e decido di verificare di persona. Arrivo al Georg Best Club zigzagando tra i colli Malatestiani. L’atmosfera nel locale è piuttosto caotica: un’unico stanzone, lunghe tavolate di ragazzi che bevono e sgranocchiano e non pochi sguardi tipo giochiamoci la donna bianca a singolar tenzone, braccio di ferro o birra e salsicce. Mi vengono in mente un poco anche le pomeridiane in discoteca: in pista i soggetti più audaci, gli altri intorno a guardare con le mani in tasca oppure il bicchiere in mano oppure le braccia conserte. E’ un bellissimo localino Bob avrebbe detto qualcuno in un film qualche annetto fa. Ma stasera siamo qui per la musica. Ad aprire le danze ci sono i canadesi Big John Bates & The Voodoo Dollz, ovvero un trio psychobilly e un duo di ballerine burlesque con parrucche da antico lupanare romano. Dunque chitarroni, tatuaggi, signorine discinte e sguardi assassini. Tutto secondo copione insomma. Ma il loro set lunghetto e piuttosto monocorde scorre via innocuo come gli shortini di rum e Jagermeister che Big John & Co si scambiano fraternamente sul palco ed evapora leggero e senza colpo ferire con il fumo delle smoke machines. Yawn. Un breve cambio di palco e già dalle note di introduzione della band di Williams, The Goldstars, ci si accorge che la musica è diversa. Il power trio ha un sound spietato e il colpo d’occhio è perfetto: il batterista sembra un membro dello staff elettorale di Kennedy, il chitarrista una comparsa di “Peggy Sue si è Sposata” e il bassista un oriundo brit in vacaza negli States. Arriva anche Andre, avvolto nel primo di tre coraggiosi e improbabili completi – broccato a fiori, poi simil gangster infine totalmente scarlatto – che alternerà nel corso dell’intera serata. Settantaquattro primavere, civettuolo e tonico come un adolescente, Williams è li a dimostrarci che le differenze contano, contano eccome. Il ragazzo in questione è un’icona piuttosto fedele dell’antico adagio del musico iconoclasta, e per avere una vaga idea del personaggio e delle sue alterne vicende suggerisco la visione del documentario “Agile Mobile Hostile”. Ma stasera ce l’abbiamo in carne ed ossa. E quel che più colpisce, al di là della gran voce e delle canzoni spesso molto belle, è la presenza. E lo spirito. Questo vecchietto dimostra a tutti in ogni gesto, in ogni sfumatura vocale, in ogni accenno di danza che lui c’è. Ora. Che questa è la sua vita. Ed è sempre incredibile vedere come la musica, quando non è pantomima, davvero scintilli e comunichi. Non importa dove siamo. Non importa con chi siamo. Quel che importa è chi siamo noi. Gli altri se ne accorgeranno di certo. Ogni musicista di sincere aspirazioni dovrebbe vedere almeno una volta un concerto come quello di Williams. Almeno una. Ed anche se le sfumature di nero a cui sono personalmente più sensibile sono quelle di Manchester e Basildon, devo dire che stasera questo gita fuori porta dalle parti di Chicago aveva decisamente il suo perché.  top

 

MATT ELLIOTT + OLY RALFE
@ Loretta Rimini 12 Ottobre 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

La carboneria esiste ancora. Trama sottobanco, e schiude i suoi tabernacoli per poche ore come uno stargate. Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. Allora fatevi trovare pronti, perché il passaggio dura appena il tempo necessario per infilare un piede tra stipite e porta e poi… puff! Le luci si spengono, e se non siete svegli e veloci rischiate di ritrovarvi di nuovo in mezzo alla strada, circondati da palazzoni e macchine parcheggiate, lost in Suburbia. Però lì, proprio un attimo prima, dove ora c’è un muro c’era una porticina. E dietro quella porticina la bottega di Loretta, che stasera ospita Matt Elliott con le sue chitarre, la sua loop station, pedalini, pifferi e melodica per la gioia di padroni di casa, amici e vicini. Mi pare di non aver dimenticato nulla. E pur essendo solo sul palco, la tecnologia moltiplicherà i sui spettri per noi. Non che il ragazzo ecceda in calore e good vibrations. Tanto per dirne una, tacita subito l’applauso di benvenuto bofonchiando al microfono qualcosa tipo no please this ain’t gonna be a great gig. E in effetti qualche ripetizione di troppo negli arrangiamenti c’è e quei campioni jungle/drum’n bass mid 90’s non è che facciano proprio impazzire. Ma per buona parte del set la qualità della performance è decisamente alta, la voce seducente, le chitarre docili quando devono e feroci quando vogliono e le canzoni – saccheggiate dalla famosa trilogia e non – dense e sincere. Ogni astante pare disposto a naufragare volentieri insieme a mr Elliott in his spleeny sea. This is how it feels to be alone stasera vale un poco per tutti insomma. C’è spazio anche per una bella cover di ‘Gloomy Sunday’ – ma quella della Galàs ancora non si batte – e uno storico canto libertario in italiano di qualche decennio fa, ‘Il Galeone’, piuttosto toccante. Bravo Matt, apprezziamo sinceri. Anche perché in questo segretissimo concerto a casa di Loretta tutto sembra una specie di festa e tra gli invitati l’atmosfera è rilassata e piacevole. Alcuni ascoltano rapiti, altri parlottano educatamente in fondo alla stanza, altri ancora sbevazzano un po’ di vino rosso e smangiucchiano torte di mele e mirtilli. Manca solo l’agente Cooper. A fine set una ragazza sale sul micropalco formato pallet, si piega verso il microfono e dice a tutti di non fuggire via perché c’è una sorpresa. Altro giro altro regalo dunque. Dieci minuti dopo spunta un ragazzone moro che attraversa la stanza, si avvia verso gli strumenti, si toglie gli stivaletti color senape, si siede e comincia a suonare. E’ Oly Ralfe della Ralfe Band. Così, gratis. Urca. Oliver sembra un fumetto, mentre canta un occhio gli si fa più piccolo e lo trasforma in una specie di marinaio e le sue mani si alternano tra una tastiera e una chitarra classica fregata a Matt. E’ informale ma presente Oly, e improvvisa questo inaspettato ghost gig con leggerezza e trasporto. Questo nella musica conta quanto il lirismo di ogni giovane Werther. Grazie Loretta, grazie davvero.  top

 

 MERCURY REV
@ Chiesa Collegiata Verrucchio 27 Luglio 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

C’è tanta luce questa sera. Tanta luce sì, pur essendo già le dieci passate. Verucchio è un piccolo borgo medioevale arroccato lassù, nell’immediato entroterra riminese. Ludovico Einaudi con il suo Verucchio Festival già da qualche anno porta artisti da tutto il mondo in questo luogo nascosto e speciale. Stasera, sul sagrato della Chiesa Collegiata, sono di scena i Mercury Rev, storica band statunitense dall’esprit rinascimentale e un linguaggio molto fisico e aereo, a conferma che l’arte spesso è contemporaneamente carne e cosmo. E’ strana la musica dei Mercury Rev, distrattamente affine a quell’estetica spleeny and sooo 90’s che tanto ha amato e traviato un’intera generazione di Peter Pan ma per lunghi tratti del concerto davvero densa e seducente. E’ tutto schiacciato lassù, tutto spinto da una corsa che parte a livello dieci fin dal primo metro e non retrocede mai di una misura, anche quando finge di prender fiato. I piani sono due: una ritmica precisa e vigorosa a far da muscolo, nervo, spina dorsale e scheletro e le armonie di voci, chitarre e tastiere a dilatarsi, insinuarsi come liquido caldo, diffondersi come vapore fino a riempire l’aerostato di elio, facendo spuntare ai nostri piedi un paio di alucce. Quelle di Mercurio appunto. Il mito. Il rito. Il teatro. C’è n’è tanto questa sera. “You’re floating… you’re drifting… you’re changing” canta Jonathan Donahue guardandoci negli occhi. Che fare? Arrendersi e nuotare nella terra di mezzo oppure resistere, ed affondare? Scelta inevitabile con questa band. Il cielo nei disegni dei bambini, ecco. Una striscia di colore blu in cima, sottile e intensa. Nel mezzo del foglio a, separarci dalla terra ferma, un grande spazio lasciato bianco, dove poter galleggiare. La musica è una delle arti più volatili e il live è sempre un luogo in cui le canzoni respirano diversamente rispetto ai dischi, lo sappiamo. Ma consiglio spassionatamente a chiunque sia anche solo vagamente in sintonia con i Mercury Rev di andarli a sentire dal vivo perchè davvero, nel loro caso, due più due fa cinque. Certo, alcune aperture sinfoniche sono degne della colonna sonora di Titanic. E i pezzi, a volte, si somigliano un po’ troppo. Ma alla fine sopravvive e scintilla solo quel che vale. Solo quel che deve. Nel live di Reading dei Nirvana contano più le imprecisioni tecniche della band o la tensione bella e palpabile del palco fatto altare? E un certo Ziggy pel di carota, qualche decennio or sono, non ci ha forse dimostrato che si può sembrare una pin up interstellare piuttosto credibile se si sposa in toto la causa, anche quando tutti sanno che non vieni proprio da Marte e ogni sera parcheggi l’astronave in una strada di Brixton? I Mercury Rev credono ciecamente a cuore e spirito della loro missione. Ed è una celebrazione nobile, potente e preziosa. Per ognuno di noi. Come se ciò non bastasse, ai sonnambuli più pazienti e determinati il Festival offre un secondo concerto, quello di Dustin O’Halloran. Ascoltare il suo pianoforte steso sul pavimento dell’unica rocca Malatestiana al mondo dove accanto agli elmi medievali c’è anche quello di Darth Vader beh, in questa notte ormai alta, mi sembra davvero la cosa più naturale dell’universo.  top

 

 MONDO CANE
@ Fortezza da Basso Firenze 26 Luglio 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Lo dico? Lo dico: il concerto fiorentino di Mike Patton/Mondo Cane mi lascia sorprendentemente perplesso. Tutto comincia sotto i migliori auspici però. Una scorrettissima ‘Il Cielo In Una Stanza’ apre le danze. Difficile non accusare il colpo con un pezzo così bello. Subito il pensiero va a Max Raabe, la sua perfetta ironia, la sua meravigliosa nostalghia. Ma quasi subito qualcosa non torna. Intendiamoci, gli ingredienti ci sono tutti: location giusta, parterre di vip e quarantenni brizzolati. Giovinetti imberbi, over cinquanta e rimastoni anni ‘90. Orchestra e band in stile, al gran completo, orfana del purtroppo febbricitante Vince Vasi. Patton saltella, sospira, grida, ammicca, sgrana gli occhi schizoidi per la platea complice e butta qualche frase di fluently italian here and there ma, canzone dopo canzone, ci si accorge che manca qualcosa. Qualcosa di assolutamente vitale. Trovato. Non c’è ombra di commozione. Ahi. E fuochi d’artificio, gioielli, e petali di rose non sempre sono sinonimo di grandezza, eleganza e bellezza. No no. Ed è importante, ragazzi miei, davvero importante ricordarsene quando si vanno a scomodare Tenco, Paoli, Modugno e compagnia bella. Perché son cristalli finissimi. Squarci sull’infinito. Non dovremmo dimenticarcene mai. Invece, ahinoi, troppo spesso sul palco stasera spira e mulina una fastidiosa arietta da Teatro Ariston in playback. A tratti gratuitamente irriguardosa ed iconoclasta nei confronti di cotanto sangue blu azzarderei. Va un poco meglio con le canzoni più leggere e divertite dei vari Arigliano, Vianello, Mal e Buscaglione ma anche qui l’aspetto ludico delle interpretazioni, da sempre caratteristica del nostro Michelino, più che esaltarle finisce per soffocarle, seppellirle sotto una cascatella di mimose e di confetti troppo rosa e zuccherosi. E, a mio modestissimo parere, Celentano non andrebbe sguaiato così. Sguaiato sì. Bellissimo invece l’intermezzo onirico e inquieto che omaggia “Il Casanova” di Fellini. Qualche altro lampo qua e là perché il mestiere c’è, la stoffa pure. Ma son dettagli. Piccole scaglie di ricordi preziosi. Il cielo del vulcano Patton scintilla, illude e seduce. Infine ricade ed annebbia. E Firenze diventa Pompei. Non c’entra nulla la nazionalità. La pronuncia. La voce pindarica. E’ proprio questione di… hemmm… risonanza. Provaci ancora Michele. In fondo hai degli ammiratori così devoti che grazie a te ora ascoltano anche Don Backy e Nico Fidenco. Proprio gli stessi che stasera hanno le t-shirt di ‘Angel Dust’, pensa un po’.  top

 

  PAOLO CONTE
@ Parco Ducale Parma 21 Giugno 2010 articolo pubblicato su Nerds Attack!

Aiuto. Conte saluta il pubblico con un gesto inequivocabile, scorrendo l’indice sulla gola da parte a parte. E’ davvero finita. Appena dietro il palco c’è la sede del Ris ma tant’è, il concerto è finito ed io mi ritrovo col solito sorriso ebete e pacificato che questo venditore di papaveri ultrasettantenne riesce sempre a stamparmi sul muso. Rispetto al tour teatrale dello scorso inverno – novanta euro in terza fila, e nella vita l’ho fatto solo per lui e quell’altro giovanotto di Devil Bowie – la scaletta si fa più agile, salta a piè pari la pausa tra primo e secondo atto e diserta al galoppo tappe importanti come Genova e Berlino. Ma tutto il resto c’è. E fa sempre malissimo, da spietata meraviglia quale è. Rapidi rapidi dunque, che la carrozza riparte. Dall’Eurasia a Gringolandia, sfiorando tutto quel che c’è nel mezzo. I russi fan paura, quei birboni dei teutoni non sono poi così malaccio e il nazismo culturale, quello vero, è affare di famiglia tra cugini d’Albione e Normandia. Ma il torpedone continua. E’ tutto un vortice di Madeleine, Max e comédie. Un caleidoscopio di dancing, giochi d’azzardo e telefoni in attesa. Una vertigine di milonghe, impermeabili e tanta, tanta pasiòn. E ancora zii, belle de jour, quadrati e cerchi. E c’è posto anche per quella di Benigni che faceva cips cips… ta tidù tidù ci bum ci bum bum. Al ragazzo poi piacciono molto le due ruote e relative velocità silenziose, diavoli rossi e zazzarazazzz. E non se ne fa mistero. Arroccato quasi sempre dietro il pianoforte Conte balla con lo strumento la danza perfetta, quella immobile. In piedi e solo, al microfono per poche canzoni, diventa l’albatro di Baudelaire. Cerca il pianoforte con le mani e con il resto del corpo. Lo avvicina come farebbe un amante. Movenze sgraziate e sciamaniche, a seguire il pulviscolo delle note, spudoratamente. Un bimbo che gioca mentre i musicisti, atterrati sul palco direttamente da Marte, ruotano tra loro posizioni e strumenti che neanche l’Olanda di Crujff. Cielo di stelle negre. Soglia di Eden. Poco importa se album meravigliosi come ‘Elegia’, ‘Una Faccia In Prestito’, ‘Razmataz’ e ben due dei tre omonimi sono totalmente ignorati. Qui non importa realmente cosa. Qui conta come. Conta l’uomo ragazzi miei. Il danzatore artigiano. Il visionario boxer. Conta lui. Ed è sempre stato così. Una pittura che parte con un codice proto avanspettacolo per poi, impercettibilmente e sinuosamente, mutare pelle album dopo album e diventare… altro. Sempre più spazio nelle note e nelle parole. Sempre più luce cosmica nei tratti. Sempre meno certezze esibite. Sempre più verità suggerite. Arte sublime e invincibile. Supremazia lampante di chi ha saputo essere DAVVERO cittadino del mondo senza dimenticare mai l’indirizzo di casa né il sapore magico del minestrone. “Kill Your Idols” diceva la t-shirt di un certo Axl nei primi anni novanta. No way Mr Brownstone. Il maestro è nell’anima, e nell’anima per sempre resterà.  top

 

MASSIMO MARCHES
Le Stagioni di un Tempo (2010 Four One Records) articolo pubblicato su Vile Vinile

Pop. Pop italiano. Parliamone. Perché tanto lo so che la maggior parte di noi ascoltando l’album di Massimo Marches penserà pop italiano. Lo penserà, sì. Ma sarà proprio solo così? Dubitate gente, dubitate. Perchè ogni maschera la dice dice lunga soprattutto sul volto che nasconde e come disse Kaiser Soze ne I Soliti Sospetti la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste. Ma facciamo un passo indietro, come direbbe il mio vj preferito. C’era una volta un gruppo chiamato Officine Pan capitanato da Cristian Bonato e il nostro Massimo. Sono amici e colleghi antichi. Cristian scrive, suona il piano e spirulla con i suoni. Massimo ci mette la faccia, la voce e la chitarra. E dopo stagioni di gavetta vera e parallele collaborazioni nel firmamento italico come turnisti di livello per le Officine arriva questa canzone, Gianni va Veloce, scelta dalla Gazzetta dello Sport – proprio quell’inutile giornalaccio rosa sì – per presentare il Giro d’Italia. Correva l’anno 2005, Gianni pedalava spedito e la tappa San Remo nuove proposte pareva dietro l’angolo. Poi qualcuno gettò una manciata di chiodi in strada. Nel 2009 la casa discografica e le tentacolari leggi di mercato decidono che l’album d’esordio del combo debba uscire come quello solista del cantante bello e bravo. Anche Cristian è bello e bravo, ma non canta. Squadra di lavoro immutata, zero a zero e palla al centro. Il disco – lo sostiene lo stesso Marches in una intervista di qualche mese fa – ruota principalmente intorno l’amore e la sua instabilità. E non c’è dubbio, come abbiamo già detto, che il codice delle singole canzoni sia pop. Ma non c’è solo l’Italia e si sa che cambiando latitudine il codice cambia radicalmente. Albione spunta spesso con Stereophonics e molti rimandi anni 90. E ancora tutte quelle frasi di chitarra che sembrano uscire dalle dita di Robert Smith le avevate notate? Le negritudini made in Jamaica di Fermo e Il Tuo Sogno. Le rotte iberiche e le spezie arabiche in Paura di Ballare. Le gocce di primavera in Numeri, l’America di Saint Patrick in Soltanto e per il resto del disco un ultimo trip inglese. Ma arriva anche la cavalleria Rusticana. La Bertè che flirta con Fossati. Battisti Lucio e Battista Lele. Con Battista nello specifico e non con Bersani il nostro condivide molto più di quel che un ascolto distratto lascerebbe sfuggire. E di Bersani, oramai, quasi più nessuna traccia. Samuele eh, non Pier Luigi. Per Marches oramai il dado è tratto. Vai a sentire una sua serata e ti accorgi che quello che sembra un pubblico distratto di segretarie fuori orario e baldi giovanotti in libera uscita alla fine conosce a memoria e canticchia tutte le sue canzoni. E allora comprendi che oltre ad essere un performer di razza è anche un grande comunicatore che arriva con ironica e centellinata guasconeria. Tra Bonato e Marches poi si rinnova un curioso tòpos, tipico nelle band di alcuni decenni fa. L’autore scrive, l’interpreta canta e suona facendo sua la canzone di un altro. Ma quando Massimo esce allo scoperto da solo assesta colpi infallibili. Ascoltate Un’Altra Volta e capirete. Il pezzo forse più lirico del lavoro, La Risposta, ci accompagna verso la porta. E quando tutto appare chiaro e i giochi sembrano fatti arriva una inaspettata ghost track davvero rivelatrice: Come Me. Scorre sui titoli di coda del film visto all’ultimo spettacolo, quando ormai la sala è semivuota. Perché a nessuno o quasi interessano i crediti del film, che invece sono fondamentali per capire il film stesso. Ed anche se il proiezionista mi guarda fisso dall’uscita di sicurezza perché vuole chiudere e andare a casa io me ne resto ancora seduto in fondo. Finchè non riaccendono le luci.  top

 

GUIDO MARIA GRILLO
(2010 AM productions)articolo pubblicato su Vile Vinile

La settimana scorsa in quel di Rimini è successa una cosa di cui si sono accorti in pochi: c’è stato un gran bel concerto alla Sala 5×10. Si dirà sai che novità. Invece una novità c’è, anzi due. Perché si trattava di un artista pressoché sconosciuto e la sala, pur piccina, era piena. Trenta, trentacinque persone che escono di casa e vanno a vedere lo spettacolo di qualcuno che non conoscono non è dettaglio da poco. Giusto per non perderci, stiamo parlando di Guido Maria Grillo e del suo omonimo album d’esordio. Guido è di Salerno ma vive a Parma dove gestisce insieme alla fidanzata un piccolo covo carbonaro di controcultura, il circolo Materia Off. Dunque se passate da quelle parti ora sapete dove trovarlo. Ma Guido fa anche musica. Lontano dal proprio feudo emiliano sconfina in riviera e pianta profonda una bandierina sulla battigia. Il concerto conferma la bontà dell’album, uscito appena qualche mese fa. Guido scrive, canta, suona, registra e produce proprio come Prince ai bei tempi e leggendo i crediti in copertina ci si rende conto che ha davvero fatto quasi tutto da solo. Ma non ci troviamo di fronte a un lavoro povero. Tutt’altro. E’ un disco denso, potente e lirico che ha il raro pregio di fermarsi un attimo prima dell’effetto tangoconrosarossainbocca e lascia comunque molto spazio all’impalpabile. Perché se è vero che col vestitino da cantautore proto bohème bello e languido Grillo sta che è una bellezza è altrettanto vero che lo sguardo del nostro va lontanissimo. Senza perdersi però. Qui si gioca una partita strana e coraggiosa che merita attenzione. La squadretta è piena di oriundi. Foto di gruppo dei primissimi che mi vengono in mente: Dm Stith, Il Danny Elfman meno disneyano, voci femminili e nere di cui non ricorderemo mai i nomi e accosciati come regista e mezza punta due fuoriclasse che ne hanno traviati milioni: Fabrizio de Andrè e Jeff Buckley. Ogni traccia dell’album è battaglia, poi danza, infine resa. Nove scatole cinesi che prima nascondono poi rivelano porticine, botole e pertugi. Nove fiori che si lasciano spogliare di veli già trasparenti ma ancora non del tutto caduti. E’ un disco limbico ma non per questo irrisolto. Un sacchetto di plastica che ondeggia sospeso nella terra di mezzo del primo cielo e ci tiene a rimanere lì, senza peso apparente mentre giù, nel sottobosco, è tutto un sibilar di insetti, un frusciar di foglie e fili d’erba. Tutto si cerca, tutto si intreccia, tutto ricama il corredo nuziale di ogni canzone che ci attende all’altare per prometterci fedeltà. Sappiamo che il purgatorio del loro amore non è ancora estinto. Ma sappiamo anche che quell’amore esiste e vuole trovarci. Forse appena domani. Consideriamoci tutti avvertiti.  top

 

DANIELE MAGGIOLI
Karaoke Blues (2010 Interno 4 Records) articolo pubblicato sul Corriere di Rimini e Vile Vinile

Come restare impassibili e maschi tra i giunchi e la morte? 1997 fuga da New York è un vecchio film di John Carpenter. In quel film oltre a Kurt Russel nel famoso ruolo di Jena/Snake Plissken c’è anche Isaac Hayes – il musicista, quello di Shaft per intenderci – che interpreta il Duca di New York. A detta di buoni e cattivi nella pellicola il Duca è il numero uno. Ecco, per certi versi secondo me Daniele è il Duca. Con lui ci si scherza su, però lo penso. Davvero. Tra i cantautori che conosco nessuno come lui riesce a essere così spesso in funambolico equilibrio tra mainstream e club privè senza cadere. Daniele ci riesce. Un piede nel fosso, l’altro in pista. Una corsa coi sacchi, però velocissima. Che tu sia concorrente o semplice amatore nella categoria cantastorie inutile farla. Tanto vince lui. Karaoke Blues, suo secondo, imminente album su Interno 4 Records offre una manciata di canzoni per rassicurarci, il resto per metterci alla prova. Alcune svolazzano saldamente appese alle nubi come un filo di panni stesi. Altre si sganciano e si fanno inseguire ben oltre il cortile del vicini. Prendete la prima e l’ultima traccia: Gita Fuoriporta in Astronave e Mio Padre. Due solide teste di ponte galleggianti che più che a gettar l’ancora ci invitano a salpare. E allora partiamo. In un Giorno d’Autunno e Viale John Lennon ci portano a passeggio per campi surrealisti e new town indigene. Giorgio Borges, Marcel Proust e Alla Ricerca delle Unghie Perdute sono lì a ricordarci che Francia e vecchi sentieri non sono stati cancellati dalle carte di viaggio. Siamo Nuovi e la title track, beh, parlano di rosso. Indubbiamente, in my opinion, alcuni episodi svettano. E graffiano il cielo indelebilmente. Vogliamo fare nomi e cognomi? Cuore Livido ci riconosce come nessuno. Roma K69996 è il proiettile d’argento che trafigge il cuore mannaro dei nostri tempi. Karaoke Blues è un lavoro bello e importante. Togliamoci subito dente e pensiero. Voi direte meglio i ritratti di Pro Loco. Meglio il cabaret del Duo Bucolico. No, non è questo il punto. E, detto per inciso, per me il Duo Bucolico sta lassù, tra i Beatles e i Depeche Mode ma non è davvero questo il punto. Provo a spiegarmi meglio. Seguitemi, this way please. Ascoltando Karaoke Blues ritroviamo una scrittura antica, intima, con meno vestiti addosso. Chi conosce la miriade di canzoni licenziate da Daniele negli anni che precedono il suo primo album sa a cosa mi riferisco. Maggioli è un fotografo formidabile quando racconta il mondo, lo sappiamo. Ma quando distoglie lo sguardo, resta in casa e dimentica gli attori è proprio lui ad abitare le canzoni. De gustibus, come diceva Moschino negli swinging eighties, ma personalmente credo che in quelle storie senza personaggi ci sia qualcosa in più proprio perché ci viene detto – e dato – qualcosa in meno. La polaroid è meno definita, c’è più spazio per noi che sbirciamo. Less is more, regolina aurea che vale per tutti dunque anche per Daniele. Nelle canzoni senza cast e copione il regista ci fa delle preziose confidenze sottovoce su di sé. Le famose poche parole per il buon intenditore direi. L’album, per influenze e presenze, è comunque affollatissimo. Bob Zimmerman e scrittori corsari. I quattro ragazzi di Liverpool con il Maharishi. Dario Maggioli e suo padre. Vivaldi, Simone de Beauvoir, un cameo di Re Fosco e qui mi fermo, lasciando a voi il piacere di conoscere il resto della ciurma. Tutto quel che accade intorno è solido, elegante e davvero ultraleggero. I pianoforti di Marco Mantovani sono le gambe di Pistorius. Le bacchette di Daniele Marzi i deltaplani di Lilienthal. Pennellate di incenso. Spruzzi di invisibile. Granelli di luce. Una produzione, la loro, talmente in simbiosi con l’essenza dei brani che quasi non si fa notare. Ossa e ossigeno. Precisi e spietati anche i colpi di fiancheggiatori di lusso come Massimo Marches. E la voce, la voce di Maggioli è bella e languida come difficilmente sembra di ricordare. E’ bene sottolinearlo perché troppo spesso ci si dimentica, ad esempio, che Jeff Buckley era anche un ottimo chitarrista. Infine le parole. Dense anche quando salgono leggere. Belle sempre e da sempre. E se ogni tanto perdiamo il filo, me ne preoccuperei poco: non siamo nel labirinto dell’Overlook Hotel e nessuno di noi, confessiamolo, sa precisamente quel che voleva dirci De Gregori in alcuni testi. Karaoke Blues uscirà a maggio. Saccheggiate i negozi. Per me che sono membro emerito del Politburo c’è una copia in heavy rotation nell’autoradio già da un po’. Vi pregherei di non sfondarmi il finestrino, ma se proprio dovete cercate una Toyota nera targata DS qualcosa. Sbirciate anche in viale John Lennon. Non si sa mai.  top