Alcuni giornalisti hanno preso particolarmente a cuore le mie canzoni e mi hanno fatto un sacco di domande precise. Ecco i testi e i podcasts di alcune interviste su web, radio e carta stampata uscite in questi anni intorno al mio lavoro Neuroni/ L’Ora del Dragone/ Mescalina/ Esperienze Sonore/ Bravo Online/ Rock AM/ Backstreets/ Orasenzombra/ Mescalina/ Chiamami Città

 

NEURONI
articolo pubblicato il 16 Giugno 2015 a cura di Giacomo Sacchetti

Era un po’ di tempo che non intervistavo nessuno. Riprendo con Giuseppe Righini, che ha fatto da poco uscire Houdini per Ribéss Records.

Rispetto a In apnea e Spettri sospetti, Houdini ha un suono e una scrittura diversi. Rimangono alcune delle influenze, come Tom Waits, ma sembra superato Vinicio Capossela, e prevalgono i suoni più cupi. Come hai concepito e ottenuto quel suono, anche insieme a Ribéss Records che ti produce, e cosa ti ha spinto a cambiare direzione?

Certamente a livello di scrittura Houdini è probabilmente il disco più pop che abbia licenziato fino a ora e, come hai giustamente sottolineato, sono le sonorità più dense, cupe e resinose a sopravvivere e imporsi sotto l’aspetto dell’impostazione generale. Già questo, di per sé, non è così usuale: pop da una parte e, contemporaneamente, elettronica tendenzialmente scura dall’altra. Non è una scelta casuale: con Fulvio Mennella, produttore artistico del disco, abbiamo deciso di assecondare il più possibile ogni sfumatura lunare che avremmo incontrato lungo il percorso in fase di provini, arrangiamenti, registrazioni e così via. L’idea era di impostare a monte il tutto con un’attitudine di lavoro sensibile verso una deriva elettronica che era nelle nostre intenzioni spingere comunque il più possibile. Crediamo di esserci riusciti. Ribéss Records e Giulio Accettulli, produttore esecutivo, ha sostenuto questo canone e tutto il progetto con una fiducia e un entusiasmo che mi gratificano e fiancheggiano sodali. Questo nuovo codice per me è conseguenza diretta di un percorso antico, dato che i miei primissimi album acquistati da ragazzino erano targati Depeche Mode e via discorrendo. Poi il doppio disco di remix Enciclopedia completa di uno sconosciuto ha senza dubbio favorito la genesi di Houdini. Ma vedo tutti questi episodi come passi di un cammino più ampio. Per esempio, nel mio lavoro, non c’è mai stato, intenzionalmente, alcun riferimento ai dischi di Waits e Capossela. Forse condividiamo gli stessi riferimenti, chissà: la canzone d’autore retrò, il teatro tedesco anni 30, un certo tipo di approccio roots in senso lato e l’amore per le storie, la narrazione e il mondo onirico e immaginifico.

Al di là delle mie impressioni, quali sono i dischi che ti hanno accompagnato mentre scrivevi e registravi l’album nuovo?

Sono stato molto più influenzato lungo il cammino da libri, film, luoghi, viaggi, teatro e arte visiva in genere. È sempre stato così per me, per ogni disco, ogni tappa del mio percorso musicale. Houdini non fa eccezione. Certamente ho comunque consumato anche parecchia musica. Se proprio devo fare dei nomi, ti confesso che nei mesi spesi intorno all’album mi è capitato di ascoltare più di altri Rowland S. Howard, Milva che canta Brecht, Dirty Beaches e il lavoro di moltissimi autori popolari sovietici finiti nei gulag, ripreso dagli autori più disparati. Si tratta di uno studio a cui mi sono dedicato negli ultimi tempi. Sono appassionato da sempre di canzoni popolari d’amore, di guerra e torch songs in genere.

Come dicevamo poco fa Houdini è un album quasi del tutto elettronico (ma Amsterdam e Licantropia no, o almeno non interamente). Nonsense dance mi ha ricordato sia i Daft Punk sia la pop dance anni 80. Dal punto di vista delle basi elettroniche ci sono alcuni momenti ballabili (Tic Toc Bar), altri più dilatati (Lungo la strada). Comunque si avverte un distacco con la linea vocale, che va sempre in cerca di una melodia differente, tranne forse in Non siete soli dove tutto sembra più omogeneo. Dal punto di vista melodico, il tuo lavoro sulla scrittura dei testi sembra a volte superiore rispetto a quello fatto dal lato strumentale. C’è questo tipo di distacco tra voce e musica, che non dà disarmonia: alcune volte l’elettronica è molto semplice e la voce ricerca sempre una perfezione d’autore più complessa. Non mi dispiace, ma alcune volte mi spiazza. È una sensazione solo mia?

Con Fulvio abbiamo volutamente spinto molto su questa dicotomia: canzoni classiche da una parte, produzione elettronica minimale e salda dall’altra. Dividendoci anche alcuni ruoli, e tenendo sempre a mente l’economia e la lezione operativa di realtà centratissime come Suicide, Soft Cell etc. Quando scrivo, il pezzo deve stare in piedi già anche solo voce e chitarra. L’arrangiamento e la produzione, pur fondamentali, arrivano in un secondo momento. L’intero album avrebbe avuto senso anche realizzato con un combo voce, chitarra, basso e batteria. Ma non era quello che volevamo. Quello che cercavamo era un luogo in cui far convivere pop, elettronica, melodia, passione e parole pensanti. Amsterdam, Licantropia e Non siete soli hanno un vibe leggermente diverso forse perchè sono gli unici pezzi che ospitano gli interventi di altri collaboratori, nello specifico Miscellanea Beat e Daniele Marzi. Era poi nostra intenzione, dove possibile, sottolineare elementi di natura fisica e ritmica all’interno dell’album. Nonsense Dance, Tic Toc Bar, con tutta la loro deriva di elettronica d’oltralpe, passano di lì. C’è anche una profonda componente spirituale in alcuni pezzi, su tutti il gospel digitale di Lungo la strada. Ma anche il mantra di Bye Bye Baba, o la stessa ninna nanna di Non siete soli, che non sfigurerebbe anche in versione minimale e spoglia, ma che nell’arrangiamento di Fulvio assume una veste davvero corale. Certamente il lavoro di scrittura su testi e melodie è stato profondo, ma davvero non riuscirei a pensare a una veste migliore, musicalmente parlando, per queste mie nuove canzoni. Difendo sincero questa produzione. E credimi, il fatto che in qualche maniera l’ascolto sia per chi sente l’album leggermente spiazzante è dal mio punto di vista un elemento positivo. Decontestualizzare, per il fruitore, i “luoghi” delle canzoni è sempre stata un’aspirazione per me.

Elettronica e cantautorato: hai fiducia in questo binomio, per te e per gli autori italiani?

Per me certamente. Mi sento assolutamente a mio agio in questa formula, e trovo molto soddisfacente il risultato del disco dal punto di vista finale. Io stesso ironicamente ho battezzato Houdini come un esempio di electrorato. Ma si tratta essenzialmente proprio di quello, non fosse altro che dal punto di vista tecnico: canzoni scritte da qualcuno che le interpreta anche e prodotte in chiave elettronica. Per quel che riguarda la scena italiana, ti confesso che la seguo con una certa distrazione e dunque davvero non saprei dirti chi o quanti stiano facendo lo stesso percorso intorno a me, meglio o peggio. Non dico questo per spocchia ma più semplicemente e banalmente perchè inciampo nelle cose che mi seducono indipendentemente da carte d’identità e passaporti. Mi è capitato in genere di infatuarmi più spesso oltre confine, questo sì. Sono comunque onnivoro. Ma anche molto critico. Qualunque siano le latitudini.

E dal vivo? Chi ti aiuta a suonare Houdini?

Dal vivo io e i miei due collaboratori, Stefano Spada e Marco Pandolfini, stiamo portando in giro il disco con una formula che prevede due laptops, un paio di launch pads e un po’ di chitarra elettrica. Dunque sequenze e files, elaborazioni e manipolazioni in tempo reale e parti suonate. Fine. E devo dire che performare su questo tipo di trama e tessitura mi eccita moltissimo. Come già accennato la mia è una formazione sia elettronica che più tradizionalmente indie, rock e wave, per cui per me avere nei monitors dei campioni sintetici piuttosto che una chitarra elettrica, filosoficamente, è esattamente la stessa identica cosa. Scrittura pop, produzione electro e attitudine live rock, narrativa e teatrale. Funziona in platea. E a noi sul palco piace tanto. La strada di Houdini è questa, su disco e dal vivo.

Le canzoni di In apnea e Spettri sospetti sono perfette. Suonano pulite, con arrangiamenti calibratissimi e rime baciate. Non c’è mai un eccesso di scrittura ma c’è (appunto) teatralità: tu canti e reciti (sul tuo sito i concerti sono nella sezione “spettacoli”). Da una parte in questo modo sveli un lavoro molto accurato, attraverso il quale hai ripulito i pezzi da tutto ciò che può essere diverso dalla sintonia che comunicano. Dall’altra rischi di ottenere canzoni che non suonano vere. Non pensi che si appiattisca un po’ la profondità dei pezzi in questo modo?

Spettri sospetti viene concepito e generato da una precisa esigenza e intenzione teatrale e narrativa a livello performativo e di scrittura. Il recupero della lingua italiana, la volontà di raccontare storie e di rifarsi a un canone preciso di storytelling etc. Scrissi e portai in scena anche uno spettacolo con Elena Bucci, il produttore di allora Marco Mantovani e Mauro Ermanno Giovanardi, intitolato come una delle mie canzoni poi finite nell’album, Ninna Landa. In Apnea mette in comunicazione tutto il mio passato cold wave in inglese che precede l’uscita di Spettri con la nuova esperienza acquisita di cantautore. È un lavoro indubbiamente più incestuoso, il tipico album di passaggio in cui si intuiscono nitidamente le due teste di ponte del cammino che avrebbe poi portato a Houdini. Amo molto quel genere di dischi. In entrambi il lavoro di scrittura e approccio è certamente chirurgico ed equilibrato. Dal mio punto di vista ciò non dà un senso di assenza e distacco. Anzi. È solo un altro tipo di comunicazione, forse semplicemente più algido. Poi, ovviamente, credo moltissimo dipenda anche dai leciti gusti e trasporti di ognuno. E dai momenti in cui si scrive e/o conosce un’opera. E mi pare sacrosanto avere visioni anche distanti. Ma, estremizzando, ad esempio c’è chi trova Beckett insopportabile, chi assolutamente irresistibile. Probabilmente per gli stessi aspetti. Trovo tutti i miei dischi per tematiche, luoghi e sfumature peculiari ugualmente nudi e mascherati. Houdini incluso. Nè più, nè meno degli altri. In maniera differente, certo. Ma nè più, nè meno degli altri.

C’è molta poesia nei tuoi testi, sia perché citi alcuni poeti (come Rimbaud o Baudelaire, in Tic toc bar) sia perché utilizzi spesso le metafore o, per esempio, il non sense, cioè i mezzi della tradizione poetica. Prima dicevi che l’influenza dei libri è importante, hai letto qualche poeta nuovo, o vecchio, che ti è piaciuto particolarmente ultimamente, o che hai riscoperto?

Abbiamo già citato Beckett. Mi schiero dalla parte opposta a quella dei detrattori riguardo le sue poesie. Mi è recentemente capitato di leggere alcune interessanti raccolte di certi musicisti come Leonard Cohen, Marc Almond, Patti Smith. Poi Tadeusz Rozewicz, Alda Merini. Ho sentito le registrazioni di alcuni readings di Kerouac, davvero buone. Boris Vian. Certe cose di Bella Achatovna. Molte altre poesie in cui sono inciampato del tutto casualmente negli anni di autori che fatico a ricordare. Davvero citando i primi, e dimenticandone mille altri. Potrei continuare per Bataille, Artaud e così via, ma la sostanza cambierebbe poco. La mia formazione poetica è di natura prettamente scolastica, da sussidiario oserei dire. Pensa a tutti i pezzi da novanta, sia pop che più crepuscolari, che vanno dai greci al ventesimo secolo di vecchio e nuovo mondo, bendati gli occhi e pesca nel mucchio. Ma più dei poeti amo gli scrittori. I pittori. Gli artisti visivi. E comunque sia, la mia forma di poesia favorita resta il cinema.

Cosa ti piace di Tadeusz Rozewicz? È un artista di cui non conosco nulla.

È un autore polacco polimorfo e seminale, scomparso l’anno scorso, dalle vicende umane e professionali davvero cangianti, di cui ammiro profondamente la viva capacità di rinnovamento del linguaggio e delle tematiche nei decenni, oltre che il sensibile talento. Ultranovantenne, la sua vita ha attraversato davvero tanto e basta sbirciare anche solo la sua biografia su wikipedia per averne una vaga idea. La mia affezione nei suoi confronti passa in origine dal suo rapporto con uno dei miei registi favoriti, Krzysztof Kieślowski. Anni fa ebbi l’immenso onore di essere invitato, insieme al pianista Marco Mantovani, a uno studio che tributava le sue opere, quelle di Kieślowski e le musiche di Zbigniew Preisner. Il tutto si concretizzò in un reading in italiano e polacco insieme a Zbigniew Zamachowski, protagonista di Decalogo 10 e Film Bianco. È stato indubbiamente uno dei momenti più toccanti e gratificanti della mia carriera, essendo io un sincero fan di Zibì e dell’opera del cineasta polacco.

Hai usato l’espressione “sono inciampato del tutto accidentalmente” in autori che non ricordi. Forse, anche se non li ricordi, questi autori ti hanno influenzato e ispirato, forse no. Al di là di questo, come funziona l’ispirazione? È una cosa che quando arriva arriva, quindi bisogna assecondarla in ogni momento, oppure ti (e le) imponi tempistiche e momenti prestabiliti? Se tu dovessi costringerti a scrivere un disco in un periodo di tempo limitato, saresti a tuo agio? Il risultato trarrebbe vantaggio da questa “pressione”?

Il processo di scrittura, per quel che mi riguarda, segue un iter ogni volta differente a seconda del caso. Qualunque cosa può dare il via a una stesura, allo sviluppo di un’idea che a volte si concretizza immediatamente, altre volte ci mette tantissimo, persino anni a completarsi. Procedo comunque sempre in maniera, per così dire, tendenzialmente circolare e non lineare. Un sasso cade nello stagno e si formano degli anelli che, allargandosi, completano il tutto. Può essere un titolo che mi colpisce, una melodia, un concetto, un riff. Non importa da dove si parte. Quel che conta è che quel punto di partenza (che infine potrebbe essere un punto posizionato ovunque lungo l’intera opera o in qualunque aspetto) mi dia la scintilla per cominciare un nuovo pezzo, e possibilmente per portarlo a termine. Negli anni ho mutato moltissimo il mio approccio. In passato avrei riscritto più volte la stessa cosa fino alla soddisfazione finale su ‘quel’ brano specifico. Oggi preferisco lavorare come in una serra: la stessa idea piantata in più vasi, lo stesso processo di nutrimento e sviluppo e poi la selezione del fiore sbocciato meglio. Questo metodo mi dà un senso di distacco ma anche di giudizio più chiaro. Non sempre, emotivamente parlando, siamo i soggetti più adatti a valutare le nostre cose se il coinvolgimento è tale da metterci in una posizione di sudditanza verso le canzoni. Mi sento, in parole povere, più artigiano che artista. Credo nell’opera come parto ma anche e soprattutto come architettura. Per quel che riguarda le tempistiche di scrittura, a volte sono estremamente prolifico, altre estremamente lento. E generalmente mi piglio tutto il tempo necessario, ma mi piace molto anche lavorare sotto pressione, con una deadline obbligata e dietro l’angolo. Mi è capitato di farlo, e i risultati sono spesso sorprendenti. Ciò conferma una mia teoria: le canzoni sono nostre, ma altro da noi, e alla base della comunicazione in genere c’è spesso, in buona fede, un solido elemento di fraintendimento, promesse mancate, aspettative tradite, sia dalle penne che dai fruitori. Credo bisognerebbe far quello che più ci piace dei dischi e della creatività altrui in genere. Deviare, sdoganare, se si crede, dall’idea di partenza dell’autore. Io lo faccio spesso con gli altri. Mi piacerebbe si facesse altrettanto con me.

Alcuni cantanti italiani (Colapesce, Vasco Brondi) stanno avendo un buon successo. Spesso mancano totalmente di forza comunicativa, ma si (e li) ritengono cantautori, quando è piuttosto confusa anche la stessa definizione di cantautore. Cosa deve fare secondo te un cantautore in e con una canzone? Tu sei un cantautore?

Personalmente non ho mai particolarmente amato la definizione in sé. Io vedo come cantautori Lou Reed, Neil Young, Cate Le Bon, Jacques Brel, Eels, Paolo Conte e Nick Cave ad esempio. E mi pare che i risultati siano piuttosto distanti, sia tra di loro che all’interno di alcune produzioni. Intendo ovviamente in termini di codice, non qualitativi. Se per cantautore intendiamo un soggetto che scrive canzoni in forma “classica” e poi le interpreta, beh, la lista si fa infinita. E sicuramente i nomi che hai citato rientrano dunque nella cerchia. Ma temo che in Italia ci sia un duplice problema: o si è condannati, per definizione mediatica, a fare/rappresentare qualcosa di natura inevitabilmente derivativa rispetto a nomi mastodontici e non del passato storico e recente oppure, qualunque tipo di cosa si proponga, basta dedicare una minima attenzione a testi e forma e vedrai che l’etichetta di cantautore non te la leva più nessuno. Spesso con grande superficialità di giudizio. Io fin da ragazzino ascoltavo indifferentemente, che so, A-ha, Tenco e Joy Division, e ben prima del crossover culturale tanto in auge e trasversalmente sdoganato di oggi. Nel bene e nel male, me ne sono sempre infischiato delle etichette per cui, infine, lascio che sia la canzone in sé a difendersi o affondare. Con le sue forze, le sue carte, i suoi numeri. Credo che chiunque faccia dischi (osservando la faccenda dal punto di vista prettamente etico e d’essenza e mettendo per un attimo da parte l’aspetto professionale e imprenditoriale) non debba preoccuparsi di molto altro. Tutto il resto, per fortuna e purtroppo, spesso non dipende da noi. Se io sono un cantautore? Se lasci la definizione a me, la risposta è: accidentale. Non mi concedo altro (e oltre) questa definizione: cantautore accidentale. top

 

L’ORA DEL DRAGONE
intervista trasmessa il 19 Giugno 2015 su Novaradio Città Futura Firenze

L’Ora del Dragone è il programma condotto da David Drago e dedicato alla musica indipendente italiana. In questa puntata Giuseppe Righini, ospite in studio a presentare il suo nuovo album Houdini e la compilation d’estate Dragonsummer 2015 scaricabile gratis qui e l’intervista a Tommaso Rosa dell’UNHCR per il “World Refugee Day Live” a Firenze.

Ecco il podcast integrale della puntata:

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MESCALINA
articolo pubblicato il 19 Luglio 2015 a cura di Veronica Eracleo

Cosa lega Houdini, Federico Fellini, Wim Wenders, Rimini e Berlino? All’apparenza nulla, in realtà dietro questi nomi si cela il contenuto del terzo disco del cantautore romagnolo Giuseppe Righini che prende il titolo dal famoso illusionista e che al suo interno lega tutto il suo vissuto e le sue passioni: i tanto amati film, le due città in cui ha lavorato per questo nuovo disco e in cui lui stesso sta vivendo, il mistero nella scelta di una citazione tanto importante come titolo del disco. Il cantautore di Rimini ci ha detto la sua, inoltre, sull’attuale scena musicale indie italiana e sui tanto denigrati talent show. Il tutto con tanta sincerità e un pizzico di ironia finale.

Il titolo del tuo disco è Houdini: cosa pensi di avere in comune con l’illusionista e cosa pensi di aver messo di lui nelle tue canzoni?

Abbiamo in comune semplicemente il numero delle lettere e l`assonanza dei cognomi. E un desiderio incontrollabile di fuga dal mondo reale e virtuale. Scherzi a parte, ho scelto questa figura come icona del disco per ragioni di varia natura, sia ponderata che leggera. Non c`è stata comunque un`intenzione particolare nel voler mettere e pianificare strategie o trucchi nei pezzi dell`album, scippati alla biografia, all`arte di Houdini. Mi affascina il suo essere probabilmente la figura pop per eccellenza di un illusionismo che guardava assolutamente altrove. Per un disco come il mio, che vuole unire canzoni d`amore, luce, ombra e spirito con una produzione tutt`altro che tradizionale pareva un rappresentante irresistibile.

Tra le informazioni legate al tuo disco si leggono i nomi di due registi molto noti: Fellini e Wenders. Ci spieghi un po’ questo legame?

E` un legame più veduto e arrivato spontaneamente che voluto e intenzionale da parte mia. Sono appassionato cinefilo da sempre, e forse il lavoro di questi due celebri registi viene alla mente facilmente a chi legge e ascolta, complice un`associazione d`idee molto diretta. Se poi consideriamo il fatto che il disco è figlio di Rimini e Berlino, dove è stato rispettivamente registrato e concepito, il gioco è fatto. E` un legame, un riferimento più suggerito ed affiorato che propriamente cercato. Ma da qualche parte, batte certamente qualche colpo. Possiamo nascondere il trucco nella scatola degli esperimenti meno noti di Houdini, magari. Ecco, mettiamola così sì.

Da Rimini, tua città d’origine, sei finito a Berlino per scrivere Houdini: perché proprio questa città, cosa trovi che Berlino abbia rispetto a Rimini e all’Italia in generale dal punto di vista di un cantautore che si accinge a scrivere un disco?

Sono due realtà talmente differenti, peculiari tra loro e al momento per me irrinunciabili che non mi ci metto nemmeno a iniziare un confronto, peraltro impossibile da fare! Rimini è la mia città e la mia casa, Berlino la mia seconda città e casa, letteralmente, dove da qualche anno divido con la riviera buona parte del mio tempo a mo` di pendolare. Là, in questo momento, è arrivata parte della mia vita prima della mia musica, molto banalmente. Che da quel punto è ripartita, con queste nuove dieci canzoni. Tutto qua. Poteva essere qualunque altro luogo, oltre a Rimini. Magari il prossimo disco lo faccio a Kyoto, a Gerusalemme. Oppure qui in spiaggia, o tra le vigne in campagna. Sentiremo poi come suonerà. Houdini parla questa lingua.

Una delle cose che colpiscono del tuo disco sono le sonorità: uno pensa che sia stato registrato e arrangiato all’estero, complice la scrittura a Berlino e le sonorità tutt’altro che italiane, e poi scopre che hai fatto tutto in Italia. Registrare e arrangiare il disco in Italia è stata una scelta casuale o voluta?

E` stata una scelta naturale, complice anche il fatto che il produttore artistico dell`album, Fulvio Mennella, lavora e opera per La Stanza 107, uno studio che ha sede in Romagna. Fulvio ha messo molto di suo in questo lavoro, ed era del tutto logico lavorare lì dunque. Ho scritto tutto a Berlino durante la scorsa estate, in autunno/inverno sono rientrato in Italia e abbiamo registrato, in aprile il disco è stato pubblicato dal produttore esecutivo del progetto, Ribéss Records.

Ci si lamenta spesso che in Italia non si producano più cose interessanti, gli addetti ai lavori scaricano la colpa sui reality e sulla gente considerata spesso ignorante perché ascolta le hit da classifica, si dà spesso la colpa alle riviste di settore dicendo che parlano sempre dei soliti noti. Cosa ne pensi di questa situazione e cosa pensi si possa fare per smuovere un po’ le acque nello scenario musicale attuale?

Penso sia tutto fondamentalmente vero, almeno a livello di dinamiche. Penso sia sempre stato un poco così. C`è poi così tanta differenza tra il Cantagiro, X Factor e i festivals indie di tendenza, e tutto quel che c`è nel mezzo? Ogni realtà mediatica di massa o di nicchia riflette le platee e le epoche di relativo riferimento. Clientelismi e protezionismi inclusi. Non penso poi si produca solo fuffa tra le cose leggere, e che ascoltare cose leggere sia necessariamente sinonimo di ignoranza del pubblico, così come credo che buona parte della musica indie alternativa considerata buona oggi in Italia sia da buttare. Voglio dire, non ci sono così tanti artisti e dischi italiani di livello in giro tra quelli che fan numeri, piccoli o grandi che siano, diciamoci la verità. Ma questo vale per molti paesi e molti mercati. E alcune cose realmente interessanti fanno fatica a uscire sì, per decine delle solite ragioni legate a qualità, fortuna, tenacia, rete e visibilità. Quello che vedo intorno a me e intorno a molti artisti di cui stimo il lavoro è una fondamentale assenza di solida strategia di mercato. Ed è un vero peccato. Certo, è un`epoca in cui il mercato non aiuta, e spinge tutti a diventare cani sciolti, affamati e rognosi. Come un poco in tutti i campi ci vuole fede, amore, leggerezza, strategia e destino. Chi trova queste carte vince.

Sei al tuo terzo disco e hai rotto un po’ i ponti con il tuo passato giocando più con i suoni, soprattutto avvicinandoti molto all’elettronica. Qual è stato il fattore scatenante di questa propensione verso nuovi mondi sonori?

Nulla di forzato. Nel mezzo c`è stato anche un doppio cofanetto in tiratura limitatissima, Enciclpedia completa di uno sconosciuto, contenete 31 remixes di tutte le tracce dei miei primi due albums. Già quello era un segnale credo. Comunque sia l`elettronica è sempre stata in primissima linea tra i miei ascolti, e per questo album sia io che i produttori sentivamo la naturale esigenza di muovere un passo deciso in quella direzione. Questo vale oggi però. Poi magari il prossimo album sarà per arpa e lamiere, oppure piano e koto, oppure voce e rebab chissà. Ora per le mie canzoni e me l`elettronica è il nostro vestito, almeno quello che crediamo ci stia meglio così come in passato ne abbiamo indossati altri. Sono un fan di Bowie, il cambiamento non mi spaventa.

Cosa ti aspettavi dall’uscita di questo disco che si è verificato e cosa speri ancora che succeda?

Mi auguravo che il lavoro venisse accolto, ascoltato e soprattutto compreso, cosa che sta accadendo. Vorrei che il disco avesse lunga vita. Stiamo lavorando molto diligentemente su tutti i fronti promozionali e performativi affinché questo accada.

Quali sono i tuoi progetti nell’immediato futuro?

Stiamo programmando il tour che mi vedrà on stage con Stefano Spada e Marco Pandolfini in una formazione per voce, chitarra elettrica e doppio laptop. Dunque il sound di Houdini, anche dal vivo, non verrà tradito. Con Ribèss Records abbiamo appena festeggiato l`arrivo del vinile in edizione limitata dell`album con le grafiche esclusive delle visual artists Alexa e Johanna Invrea. Con Daniele Quadrelli, autore del video di Magdalène, stiamo editando un teaser promozionale del disco e il video del secondo singolo. Siamo dunque indaffarati e felicemente ingombri di progetti per Houdini. Avanti Savoia. Eredi esclusi naturalmente. top

 

ESPERIENZE SONORE
intervista trasmessa il 26 Maggio 2015 su Radio Gutt Laun Luxemburg

Ecco il link dell’intervista a cura di Paolo Travelli per il programma Esperienze Sonore in onda su Radio Gutt Laun Asbl Luxembourg. top

 

BRAVO ONLINE
articolo pubblicato il 16 Aprile 2015 a cura di Fabio Antonelli

Il 14 aprile è uscito Houdini (Ribéss Records, distr. Audioglobe), terzo lavoro discografico di Giuseppe Righini, multiforme artista romagnolo (nasce a Rimini nel 1973) che, sul suo sito personale, si autodefinisce cantante curioso, autore onnivoro, attore occasionale, scrittore funambolo e piccolo giornalista carbonaro. Sono passati ormai quattro anni dal suo secondo disco In Apnea (2001) e dopo i primi ascolti mi sembra di poter dire che il mondo musicale di Righini sia davvero cambiato tutto. Ora prevale anzi direi domina l’elettronica dentro una veste pop ma poi lo riascolti bene e allora sembrano riemergere echi decisamente più cantautorali del suo disco d’esordio Spettri Sospetti (2008). Allora Houdini, d’altronde il titolo lo suggerisce, forse è anche un sottile gioco d’illusioni, un rimescolare le carte, un confondere acque dense e torbide come le sonorità del disco.

Credo che questo nuovo disco Houdini, rappresenti musicalmente una svolta decisamente elettronica, una notevole virata rispetto al disco d’esordio Spettri sospetti, anche se poi il gusto per il noir resta sempre presente. Come sei arrivato a questo progetto?

Houdini arriva a un paio d’anni da Enciclopedia completa di uno sconosciuto, un doppio album di remixes in edizione limitata in cui colleghi e amici avevano manipolato per intero tutta la tracklist di Spettri Sospetti e In Apnea, i miei primi due albums. Questo mio desiderio e interesse nei confronti dell’elettronica ha radici antiche, spuntate nei miei primi ascolti e mai del tutto recise. Insieme al produttore di Houdini, Fulvio Mennella, abbiamo deciso di impostare il lavoro in quella direzione, semplicemente assecondando un desiderio di entrambi e personalmente figlio di alcuni esempi del passato come Suicide, Soft Cell e via discorrendo: squadra di lavoro minimal, attenzione focalizzata su produzione e canzoni. Questa vena, così come l’amore per il noir, mi appartiene da sempre. Già in Spettri Sospetti, sebbene più defilata, c’era una componente elettronica, così come in In Apnea. In Houdini questa esigenza ha chiesto più spazio, che io ho concesso volentieri.

Mi sembra però di cogliere, in questo passaggio, una grandissima attenzione nella cura dei suoni e dei testi solo apparentemente minimalisti, quasi a voler creare soprattutto suggestioni, ricordi, visioni, è così?

In assoluta linea con le suggestioni del titolo stesso dell’album, mi verrebbe da dirti di sì. Certamente, se si escludono forse alcuni pezzi – l’apertura di Monge Motel ad esempio, oppure, in parte, la stessa Amsterdam – un certo tipo di storytelling nei testi è stato abbandonato e, in questo disco, la scrittura è certamente più visionaria e suggerita che prettamente narrativa. Nulla esclude il ritorno di storie, personaggi più “definiti” nei prossimi dischi, ma per Houdini ha vinto questo tipo di canone più, diciamo così, informale, se vogliamo rubare una definizione pittorica. I suoni e la produzione sono curatissimi e chi ascolta musica elettronica, sa bene quale può essere la potenza e il calore di tali canoni. Semplicemente, principalmente, in Houdini ci sono più synths, campioni e sequenze che negli altri dischi e le chitarre, i violoncelli, alcuni bassi e alcune batterie non sono scomparsi del tutto.

Dalle note del libretto del disco, che libretto tanto non è, perché ha il formato di un foglio quadrato, piegato in quattro, leggo che il disco è stato scritto e pensato interamente da te nel corso del 2014, in un’alternanza tra Berlino e Rimini. Nel disco direi che si colgano tra le righe echi e riferimenti a due grandi registi cinematografici legati a queste due città, mi riferisco a Wim Wenders e Federico Fellini. Quanto sono stati importanti per te e quanto sono stati fonte d’ispirazione in questo tuo lavoro?

L’artwork dell’album, così come accaduto anche per Enciclopedia completa di uno sconosciuto e In Apnea, è stato affidato alla visual artist Alexa Invrea, che negli ultimi anni collabora spesso con me anche dal vivo con proiezioni e in rete con video. La grafica e il design sono di Johanna Invrea. Con loro e con l’etichetta, Ribéss Records, abbiamo deciso che il formato manifestino del booklet avrebbe meglio esaltato alcune idee iconografiche che avevamo. Berlino è, letteralmente, la mia seconda casa dove vivo parte dell’anno e, negli ultimi tempi, sta acquistando sempre più valore simbolico e pratico per me. Il suo valore si alimenta a vicenda, dal punto di vista emotivo, formativo e suggestivo in simbiosi con la mia città natale, Rimini. Utilizzando un’immagine che sa di salsedine, il disco è stato dunque scritto vicino al Mare del Nord e inciso sull’Adriatico. Sono un grandissimo fruitore di cinema, di conseguenza non immune al fascino di Fellini e Wenders. Non soltanto loro però mi seducono, e se la loro influenza si è infilata tra le righe di Houdini, penso sia stato più un effetto inconscio e collaterale che intenzionale da parte mia. Inutile dire che sono assolutamente i benvenuti.

Il disco è stato anticipato dal video del primo singolo Magdalène, in cui tu stesso sei attore in un cortometraggio in cui un uomo sembra voler sfuggire dai propri ricordi, ma è difficile abbandonare ciò che è stato, è dentro una galleria ferroviaria che sembra non aver mai fine, fino alla scena finale in cui si vede finalmente l’uscita, la luce, vivida che inonda lo schermo. Questo senso in parte di claustrofobia, di prigionia dalle stesse proprie esperienze di vita mi sembra di coglierlo non solo qui o è una mia suggestione tra le tante suggestioni suscitate da queste nuove canzoni?

Sicuramente il tema dell’isola, del pianeta, cosmo e luogo a sé, al “riparo” dal mondo e dal “fuori” è un concetto che mi affascina da tempo. Mi è capitato in altre interviste di parlarne, e segnalare ad esempio un pezzo come Bianca nel primo disco o un inedito rimasto escluso dalla tracklist finale di Houdini, intitolato Hikikomori. Quel che mi viene da sottolineare per Magdalène è forse uno stato di amnesia più che di claustrofobia. Ricordiamo l’esistenza di qualcuno – o qualcosa – la sua bontà, la sua bellezza, la sua importanza ma abbiamo come perduto momentaneamente le coordinate di quel … posto. Dunque vaghiamo, in una terra di nessuno tra quel che era e quel che sarà, così come accade al mio personaggio nel cortometraggio. Il video è stato girato in una vecchia galleria ferroviaria molto suggestiva a San Marino, vicino a Rimini, che durante i bombardamenti fu utilizzata come ricovero per sfollati. Con Daniele Quadrelli, regista di questo e altri miei video nonché caro amico, ci siamo misurati e divertiti in un piano sequenza in bianco e nero che ci soddisfa molto, e che sta riscuotendo diversi consensi. E’ una cosa importante per me, perché considero l’aspetto visivo del mio lavoro in maniera molto rispettosa.

Hai citato una canzone che alla fine non è entrata a far parte di questo lavoro, mi piacerebbe magari saperne il motivo, ma c’è invece una canzone cui sei particolarmente affezionato, cui non avresti rinunciato per nulla al mondo a inserirla nella tracklist?

Sono molto soddisfatto della tracklist finale di Houdini. A volte un pezzo resta fuori non necessariamente per il valore in sé, maggiore o inferiore dei pezzi promossi ma semplicemente perché nell’economia generale dell’intero album serve un pezzo d’altra natura. E’ accaduto in ognuno dei miei dischi, credo accadrà ancora. Spesso negli inediti si nascondono delle chicche preziose, che prima o poi vedranno luce, quando le circostanze saranno favorevoli. E’ certamente quello che mi auguro per Hikikomori e molti altri. In genere la rosa di canzoni da cui si seleziona con il produttore la scaletta finale è molto ampia per ogni disco. Se proprio devo dirti un titolo, sono molto contento che in Houdini ci sia un pezzo come Lungo la strada, che rappresenta molto per me sotto infiniti punti di vista e chiavi di lettura, personali e musicali. Per In Apnea poteva essere La luce del sole alle sei di pomeriggio, o Si qui ora. Per Spettri Sospetti, invece, Ninna nanna del mare in tempesta e così via. Ma ognuna delle tracce contenute in Houdini ha un valore importante e significativo, di rilievo nella mia vita presente, il mio passato recente e la strada che ho di fronte. Dovunque mi condurrà.

Lungo la strada insieme con Amsterdam e Non siete soli sono il terzetto che starei ad ascoltarmi e riascoltarmi, quasi ipnotizzato. A me piace molto soffermarmi sui testi e a proposito di Lungo la strada, la canzone si chiude con i seguenti versi “Troverai la verità / sembrerà banale / solo l’amore / ci può salvare”, versi semplici ma carichi di significato, quanto credi nell’amore come via di salvezza?

Sono certamente tre canzoni importanti, ma per il mio percorso personale davvero tutto il disco lo è. Ogni fiore che non appassisce conta. Per quel che riguarda gli ultimi versi di Lungo la strada, non è assolutamente casuale che io utilizzi quelle parole e faccia pure riferimento all’apparente banalità di quel che dico. Quando accade, l’amore vince. Semplicemente. Infallibilmente. Non sempre ci fidiamo, proteggiamo, assecondiamo, ascoltiamo e nutriamo la bellezza di questa … banalità.

C’è un’altra canzone in particolare che mi ha incuriosito, si tratta di Nonsense dance. Mi ha colpito per le sonorità espresse ma soprattutto per il titolo, io credo che tutto abbia sempre un senso anche il nonsense, com’è nata questa canzone? E’ davvero solo un divertissement?

Non solo. Quest’album è probabilmente il disco più pop, a livello di scrittura, che io abbia composto e licenziato fino a oggi. Scuro e meno leggero di quel che potrebbe apparire a un primo sguardo, certamente, ma indubbiamente pop, almeno in alcuni episodi. Nonsense Dance è una delle tracce più commestibili e ludiche dell’intero lavoro, è vero, ma al contempo una delle più riflessive. Io poi se c’è da trasfigurare un paesaggio non esattamente luminoso e dipingergli sopra un’altra sfumatura per confondere le acque e giocare con gli specchi non mi tiro indietro. Mi piace mescolare i sapori e decontestualizzare gli elementi di sets e scenari, pur senza perdere il timone dell’idea di fondo. Nonsense dance è in realtà un brano sull’incomunicabilità, che utilizza la danza e il cinema come paraventi metaforici, estetici e formali e, musicalmente parlando, utilizza un’elettronica di matrice vagamente transalpina ma, ripeto, non è una traccia così leggera come parrebbe.

Prima parlavi della strada che hai di fronte, come hai intenzione di promuovere questo tuo nuovo lavoro? Hai già imbastito date e luoghi in cui presentarlo?

La presentazione del disco, che è uscito il 14 aprile, sarà sabato 18 aprile a Santarcangelo di Romagna in un luogo davvero magico che si chiama Loretta. Per ogni info su come raggiungerlo e prenotarsi per l’evento suggerisco di seguire in questi giorni la mia pagina ufficiale Facebook e quella di Ribèss Records attraverso cui saranno forniti dettagli e contatti. Non si tratta di una serata a inviti ma data la capienza limitata di questo luogo davvero speciale la prenotazione potrebbe non essere una cattiva idea. Poi, alla fine del mese, volo a Berlino con Quadrelli per girare un nuovo video lassù e da maggio in avanti cercheremo di suonare il più possibile e promuovere l’album al meglio. Anche in questo caso, il sito ufficiale e le pagine dei socials saranno utili per avere ogni news.

Per concludere, a chi non solo non conosce questo nuovo progetto, ma non conosce neppure Giuseppe Righini, che cosa diresti?

A chi non mi conosce, semplicemente, direi di cercare le mie canzoni e venire ai miei concerti. In genere funziona così, non trovi Fabio?

Assolutamente, per un musicista credo sia la sua musica a parlare per lui e che la dimensione live sia quella che maggiormente riveli lo spessore di un artista, quindi il consiglio per chi ci legge è di cercare la tua musica e venire ai tuoi concerti.

Assolutamente. Io sarò senza dubbio là. top

 

ROCK AM
intervista trasmessa il 21 Maggio 2015 su Radio Popolare Roma

Ecco il link dell’intervista a cura di Elisabetta Laurini e Antonietta Gravante per il programma Rock AM in onda su Radio Popolare Roma.

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BACKSTREETS
intervista trasmessa il 24 Giugno 2015 su Radio Icaro

A cura di Lele Guerra per il programma Backstreets le strade secondarie della musica

Ecco il podcast integrale della puntata:

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ORASENZOMBRA
articolo pubblicato sul numero del 15 Luglio 2012 a cura di Fabio Antonelli

Pensando al rapporto tra canzone d’autore e genere noir, mi sei subito venuto in mente per il tuo affascinante disco d’esordio come solista Spettri Sospetti, un titolo che già di suo potrebbe essere il titolo di un avvincente romanzo giallo, perché hai voluto dare proprio questo titolo a un disco che è sicuramente tra le proposte più originali degli ultimi anni?

Spettri Sospetti è l’inizio di un verso de La Nave Fantasma, brano incluso nell’album. Il titolo viene da lì. Spettri Sospetti è anche il nome del primissimo spettacolo in cui presentai dal vivo alcune delle canzoni finite nel disco, ben prima della sua uscita e della possibilità concreta di realizzarlo. E pur non essendo propriamente un concept, certamente uno dei tre temi dell’intero lavoro è quello degli spettri, veri e presunti. Poi ci sono anche ragioni estetiche. Ho sempre subito il fascino delle parole, la bellezza della fonetica, l’eleganza delle assonanze più che delle rime. E quelle due parole specifiche, messe una accanto all’altra, mi sono sempre piaciute. Aggiungiamo poi che la numerologia mi ha sempre incuriosito e quando ho scoperto che il mio nome aveva lo stesso numero di lettere del titolo il gioco era fatto.

La seconda traccia del disco Tango Santo ci narra di un killer “Mi presento sono Santo / e come un nero guanto uccido a pagamento / Sono magro ben vestito / mi nascondo facilmente dietro un dito / Chi mi paga poi lo nega / e la sua coscienza non farà una piega” ma la sua storia sembra nascondere qualcosa, fantasmi del passato direi, dai versi finali “Ho guidato ed ho spinto / l’automobile in fondo al labirinto / La palude si richiude / le mie mani non saranno mai più nude”, illuminaci?

Quando scrivo una storia, mi piace cercare di suggerire quel che accade piuttosto che metterlo inequivocabilmente nero su bianco. Credo fondamentale lasciare spiragli d’interpretazione personale e spazio di movimento all’immaginazione, la lettura e la sensibilità di chi ascolta. Anche quando ho le idee chiarissime, cerco sempre di nascondere con una mano e con l’altra svelare, dunque non so se faccio bene o male a spiegare nello specifico le mie canzonacce! Ma, scherzi a parte, Santo è un sicario di vecchia data che tra il risparmiare o sacrificare l’ennesima vittima commissionata sceglie la seconda opzione, senza capire che forse, questa volta, la mossa più giusta per lui sarebbe stata la misericordia. E’ un uomo completamente identificato con il proprio ruolo e la propria missione, convinto di avere un’unica possibilità di scelta, convinto di essere incapace – o immeritevole – di redenzione. Quest’ultimo delitto, fortemente simbolico, rappresenterà per lui l’ultima occasione – perduta – di cambiare il destino delle proprie carte, e lo condannerà irrevocabilmente. Santo, come Jack Torrance, rimane così per sempre prigioniero del proprio labirinto, e come Norman Bates si sbarazzerà del cadavere racchiuso nell’auto lasciandolo sprofondare nella palude del proprio fato. Le sue mani non saranno mai più nude perché impossibile oramai mondarle della colpa.

Altra canzone che svela solo in parte e in tal senso considero sorprendente la tua capacità di lasciare intuire ciò che potrebbe essere, mantenendo però un alone di mistero, è La Strage di San Valentino, cito solo i brevi versi che fanno da ritornello “Scendono giù sul mondo / Scendono giù sul mondo / Il nostro girotondo non finirà” che poi in chiusura si trasformano in “Scendono giù sul fondo / Scendono giù sul fondo / Il nostro girotondo non finirà”, ci spieghi cosa realmente è successo è il perché di questo cambio di versi?

Si tratta di una canzone d’amore, molto intima e, proprio per questo, credo molto … nuda. In entrambi i casi, l’affondare di un sentimento profondo, i frammenti di una danza che diventa eco. Una fine che proprio perché insopportabile diventa indimenticabile e infinita.

Ninna Landa sembra essere più esplicita con i suoi versi finali “Bianco tormento / vento che spinge / contro questa porta di legno dipinto / soglia pesante che non cederà / Ma l’assassino è proprio qui / ed è davvero più pericoloso / star dentro che fuori stanotte”, ma è davvero tutto così come appare?

Ninna Landa è una canzone d’amor dedicata a un lupo, che spesso è la presenza più amorevole, fidata del nostro sonno più intimo e disarmato. Almeno fino alla prossima luna piena.

Un’ultima domanda. Con il successivo disco In apnea, oltre che dimostrare ottime doti cantautorali, hai fornito una valida prova nel ruolo di scrittore, infatti, nel bel cofanetto a forma di libro che racchiude il disco è contenuto un libricino con 17 racconti brevi o brevissimi, capaci però in poche righe di coinvolgere e sorprendere il lettore. Tra questi almeno due “Scarafaggi” e “L’ultimo Avvertimento” rientrano a buon titolo nel genere noir, sei d’accordo?

Sì, concordo. Spettri Sospetti, a suo tempo, fu un disco con un taglio fortemente narrativo proprio perché figlio soprattutto del desiderio di tornare a raccontare storie. E tornare a farlo in lingua madre. In quell’album personaggi, scenari e situazioni sono ricche di suggestioni certamente musicali ma anche cinematografiche, teatrali e letterarie, proprio perché ho naturalmente attinto a diversi modi di raccontare e rappresentare una storia, senza limitarmi a un solo codice, un solo modo. C’è una grandissima tradizione, cantautorale e non, che ha fatto dello storytelling un grande cinematografo, utilizzando la forma canzone come cavallo di Troia. Nel mio ultimo album In Apnea quest’approccio sopravvive solo in alcuni degli episodi che compongono il disco, mentre il resto della scrittura è decisamente più fotografica e pittorica. Ma ho dato corpo ai miei personaggi attraverso i diciassette racconti. E certamente “Scarafaggi” e “L’ultimo Avvertimento” sono due episodi in cui il mio gusto per il noir trova la possibilità di esprimersi. C’è poi da dire che una storia scritta su carta piuttosto che registrata per l’ascolto è una grande opportunità di esprimere con colori e toni differenti lo stesso episodio. Per un autore è questo un grande privilegio, un grande piacere e, in definitiva, anche una grande palestra. Il fascino del noir su di me ha facile presa tanto che uno dei miei progetti, già ampiamente strutturato ma ancora nel cassetto, affronterà in maniera ancora più specifica e filologica l’argomento. Aspetto solo la luna giusta. top

 

MESCALINA
articolo pubblicato sul numero del 26 aprile 2011 a cura di Ambrosia J. S. Imbornone

Cantante, autore, attore, Giuseppe Righini, classe 1973, con la sua curiosità appassionata crea meticciati sonori con corpose, “incestuose” combinazioni di stili e fusioni armoniose e sinestetiche di arti. Musica, teatro, scrittura narrativa e pittura si mescolano come i colori materici di una tavolozza di possibilità infinite, che oltrepassino le convenzionali distinzioni di generi. E così il suo secondo album da solista, In Apnea, pubblicato da alcuni mesi da Interno 4 Records e NdA Press, unisce in un unico pulsare immaginifico di storie e stati d’animo i suoi brevi racconti, le sue canzoni e le opere pittoriche visionarie di Alexa Invrea, animate da contrasti di colore spettrali. Nella sua strada di musicista, ha incrociato cold-wave, rock retrò, pop, cantautorato e tuttora alterna e mischia new-wave, bossa nova, pop d’autore, indie, psichedelia, sonorità esterofile e a tratti “esotiche” con la tradizione italiana, organo e percussioni, chitarre ed elettronica. Il tutto associato ad una vocalità raffinata e suadente. Ma lasciamo parlare lui della sua musica, delle sue esperienze, del suo inserimento nel progetto della Leva cantautorale degli anni Zero.

Hai alle spalle un percorso piuttosto lungo e articolato, passato attraverso la militanza in vari gruppi (Rami Spezzati, Sin-è, The Hype) e poi approdato ad una carriera da solista: come racconteresti la tua storia musicale dagli esordi ad oggi?

Come una storia, almeno per quel che riguarda i primissimi passi, molto simile a quella di tanti. Verso i dodici-tredici anni la musica diventa il tuo giocattolo preferito. Milioni di pomeriggi passati a sbirciare tra gli scaffali dei negozi di dischi, a leggere ogni trafiletto delle riviste. Poi, inevitabilmente, il momento in cui da fruitore diventi attore. E allora formare una band con i tuoi compagni di scuola è la cosa più naturale. Tutto il resto va da sé, e alla fine dell´effetto domino c´è In Apnea, il mio ultimo album. Nel mezzo anni e anni di ascolti, canzoni, concerti, incontri, sconfitte e conquiste. E tanta, tantissima fede nella musa.

Quali sono state secondo te le esperienze (concerti, progetti, esperienze teatrali, ecc.) che hanno lasciato il segno più netto nella tua musica?

Ho avuto la fortuna di lavorare e confrontarmi con grandissimi musicisti, attori e autori. Devo tanto ad ognuno di loro. E devo molto anche a tutti i concerti, tutte le prove, tutti i laboratori, tutti gli spettacoli. Dal primo all´ultimo. Se proprio devo fare – solo simbolicamente – un nome tra i tanti, ricordo con emozione la collaborazione con Zbigniew Zamachowski, di cui, appena ventenne, consumai la videocassetta di Film Bianco [n.d.r: 1994; secondo episodio della trilogia dedicata ai colori della bandiera francese dal regista polacco Krzysztof Kieślowski].

Come descriveresti il tuo progetto musicale? Cosa lo contraddistingue maggiormente secondo te? La fusione di caratteri e sonorità di vari generi, dal pop alla new-wave, dalla bossa nova alla canzone d’autore, dall’indie più essenziale ed acustico alla psichedelia?

Si tratta di un progetto senza collocazione geografica e cronologica precisa, che cerca il più possibile di rimanere refrattario verso manierismi e steccati di stile, pur mantenendo il rispetto della forma canzone. Mi piace decontestualizzare, deragliare un poco i binari, seguire il corso principale dagli affluenti paralleli. Portare la scialuppa ad un attracco differente da quello previsto, non per questo di una città meno bella. Si tratta di canzoni. Tutto qua.

A tre anni da Spettri Sospetti, il tuo disco d’esordio come solista, da un paio di mesi è uscito il già menzionato In Apnea, con dodici canzoni e diciassette racconti illustrati da Alexa Invrea. Come è nata l’idea di pubblicare in unico progetto sia queste brevi pagine narrative sia le tue canzoni?

L´idea nasce dall´interesse interdisciplinare nei confronti della narrazione e dell´immaginare, del tradurre in immagine. Il mio essere autore mi porta a scrivere indifferentemente canzoni, racconti e testi teatrali e la poetica visionaria della pittrice Alexa Invrea è perfettamente complementare alle mie storie, ai miei personaggi, alle loro voci. La cosa si fa ancora più evidente dal vivo grazie a enormi fondali su cui vengono proiettati i suoi lavori, e l´effetto unito al pathos dell´esibizione è davvero molto potente. In Apnea è principalmente il mio secondo album, ma il libro con i racconti e il lavoro grafico non rappresentano nella maniera più assoluta semplicemente una generosa appendice. Sono parte integrante, organica e determinante dell´intero cofanetto. Diversamente, tutto il progetto non sarebbe solo più povero. Sarebbe altro. Trovo molto interessante l´aspetto incestuoso delle arti, il mescolare le carte, lo sporcarsi le mani, il misurarsi su più campi. E´ quello che negli ultimi anni vedo accadere agli artisti che trovo più interessanti. Ed è quello che credo giusto anche per me.

Come presenteresti questo tuo secondo lavoro da solista a chi ancora non lo conosce?

Dopo anni di wave, pop e rock nel 2008 è arrivato il mio primo album, Spettri Sospetti, in cui era forte il desiderio di tornare a scrivere in italiano e raccontare storie. Scelsi, più o meno in coscienza, di accantonare la mia dimensione meno cantautorale in favore dell´aspetto più narrativo e teatrale delle canzoni, anche dal punto di vista musicale. In Apnea fa invece convivere due codici: quello più antico legato a una formazione personale ed un gusto del tutto esterofilo e quello più sensibile alla tradizione cantautorale, sempre intesa in senso globale, acquisito con Spettri Sospetti.

Passiamo nello specifico al progetto della Leva cantautorale degli anni Zero: cosa ne pensi?

Penso alla Leva come un progetto coraggioso e meritorio. Non trovo affatto scontato decidere di realizzare un doppio album in cui dare spazio e fiducia a così tanti autori così poco “istituzionali”, per cui chapeau a Club Tenco e M.E.I.

Come sei stato contattato e coinvolto in prima persona?

Tre anni fa, immediatamente dopo l´uscita di Spettri Sospetti, Enrico De Angelis selezionò me e l´album per un concerto del Club Tenco a Provvidenti, in Molise. Fu una bella serata, per cui al momento di stilare la lista dei partecipanti al progetto della Leva credo che quel ricordo abbia giocato a mio favore. Devo poi dire che sia De Angelis che Sangiorgi del M.E.I. hanno da subito apprezzato e seguito il mio lavoro. La convocazione per La Leva ne è prova tangibile, e per questo li ringrazio.

Come è stato scelto il brano con cui partecipi alla compilation, E mio padre se ne vola via?

Nell´estate 2010, durante la pre-produzione di In Apnea, il mio editore Massimo Roccaforte mi ha dato la bella notizia riguardo l´invito della Leva. Sia io che i miei musicisti abbiamo immediatamente pensato che E Mio Padre Se Ne Vola Via sarebbe stato il brano indicato. Quella canzone, ancora allo stato embrionale, rappresentava già il cavallo di Troia con cui portare avanti lo spirito del nuovo album. In ogni caso la scelta è stata fatta in assoluta libertà e autonomia. La mia etichetta Interno 4 Records non ha minimamente interferito dimostrando grande rispetto e fiducia nel mio lavoro.

Pensi sia rappresentativo dei caratteri del tuo stile musicale? Prova a presentare questo brano ai nostri lettori…

E´ la storia di nome e destino di una famiglia, piccola allegoria dell´eredità dei padri sui figli. E´ un brano a cui sono molto legato per diversi motivi, non ultimo il fatto che mi pare sia un esempio felice ed equilibrato di quel meticciato musicale che mi piace pensare come spina dorsale di In ApneaE Mio Padre Se Ne Vola via ha una scrittura, una stesura e una melodia piuttosto classica, ma una produzione più sperimentale e atipica. Non è l´unico episodio dell´album che va in quella direzione. Penso ad esempio ad un brano come Non Ho Tempo.

Che aspettative avevi riguardo alle iniziative della Leva e che vantaggi pensi queste possano averti dato finora?

C´era la sana attesa per un disco nuovo da ascoltare. Ero poi curioso del risultato finale e della selezione, essendo molti dei brani ancora inediti. Per quel che mi riguarda personalmente sono molto contento per lo spazio dato al mio pezzo, e le belle parole che sta raccogliendo. E´ un invito lusinghiero e prezioso, sotto molti punti di vista.

Sei soddisfatto di come si sta sviluppando il progetto e delle occasioni/spazi di visibilità che vi sta offrendo, considerando come si presenta la scena musicale italiana attuale?

Sì, non sono tempi facili in effetti. Però sono molto soddisfatto, i ragazzi dell´organizzazione stanno facendo un ottimo lavoro. In più showcases e concerti promozionali diventano occasione di incontro e confronto con il resto della Leva.

Toglici una curiosità: su quale/i altro/i artista/i sotto i quarant’anni, non coinvolto in questo progetto, scommetteresti nel futuro?

Su tutti quelli che avranno coraggio, cuore e fiato per le lunghe distanze. E qualche pianeta allineato.

Cosa pensi si intenda oggi per “canzone d’autore”?

Posso dirti quella che secondo me, oggi, è la maniera migliore e più fertile di intendere la canzone d´autore: partire. Prendere un treno che vada un po´ più in là della Francia. Tanto quel che sei te lo porti comunque in valigia. E anche scucire un po´ di giacche e cravatte. Faber e il resto della truppa avrebbero apprezzato una loro demistificazione. Perché le canzoni stanno in piedi con le loro gambe e corrono, già appena nate. Siamo noi ad avere bisogno di loro, non loro di noi.

Tu usi spesso la parola “cantautore” per descrivere te stesso o preferisci definirti in un altro modo?

Spesso, anche ironicamente, mi piace definirmi cantautore accidentale. Ho grande rispetto per le tradizioni della canzone d´autore, i suoi papi laici e le tante meraviglie che ci hanno regalato. Ma per quel che mi riguarda personalmente le mie affinità con quel tipo di sensibilità devono probabilmente più a cinema, teatro, pittura e letteratura che ai dischi. Mi diverto a fare il sarto con le storie, il cuoco con le parole, a mescolare tutto e vedere cosa succede.

Quali sono gli ascolti che pensi nel tempo possano averti maggiormente influenzato sia tra i cantautori italiani (forse ad es. il Battisti più sperimentale?), sia tra gli artisti di altri generi o altre nazionalità?

Questa analogia con il Battisti più eterodosso ultimamente è ricorrente, ed è curioso perché di tutti i cantautori che conosco Battisti è probabilmente quello di cui so meno. Ho anche letto da qualche parte che sia David Bowie che Mick Ronson in passato hanno espresso il loro apprezzamento per il lavoro di Battisti. Ronson addirittura ha inciso una sua cover. Comunque, a parte questa piccola digressione, impossibile risponderti in poche righe! Posso solo dire che ascolto musica e vado a concerti da quando ero piccolo piccolo e che l´80% della mia discoteca è in inglese. Ma la bellezza resta una terra apolide.

Come nascono i tuoi testi e i tuoi racconti? Cosa li ispira? Vi troviamo una certa varietà, lettere, ritratti, storie, riflessioni, intimismo, quotidianità e riferimenti letterari e cinematografici…

Sono un convinto sostenitore dell´aspetto artigianale della scrittura, una scimmietta onnivora e curiosa. Credo che questo certamente aiuti e dia un po´ di mestiere. Ma in tutta sincerità devo confessare che la dinamica e l´essenza dell´intero processo mi sfugge, limitandosi ad accadere. C´è indubbiamente un elemento arcano e ancestrale. L´uomo è un animale sociale e l´essenza ultima di ogni forma di creatività credo sia la comunicazione. Tecnicamente parlando, non mi piace procedere in maniera lineare, ma circolare. Lavorare intorno a un´idea. Spesso si tratta di semplici spunti, anche piccolissimi. Altre volte di scenari, figure e dinamiche già in partenza strutturate dalle mie associazioni di idee. Che sia un personaggio, una storia o il colore di un qualunque oggetto poco importa. Purché riesca a far gemmare qualcosa nella mia testolina.

Quando scrivi un racconto o i versi di una canzone, pensi ad un tipo ideale di ascoltatore/lettore a cui soprattutto ti rivolgi? Quale?

Assolutamente no. Sarebbe la maniera più facile per cucinare qualcosa di scotto e scondito. Sono piuttosto io che ascolto e assecondo quello che il racconto o la canzone hanno da dirmi. Bisogna fidarsi, farsi guidare.

Che difficoltà incontra un artista “emergente” degli anni Zero a vivere della sua musica senza non doverle affiancare altri lavori? Tu lo ritieni possibile? Riesci a farlo?

In un contesto di nicchia, come spesso accade per un progetto come il mio, oggi come oggi è diventato estremamente difficile. Però è anche molto positivo avere una totale autonomia creativa, che probabilmente in altri contesti verrebbe a mancare. Occorre dunque lavorare su più fronti e in prospettiva, consolidando lavoro dopo lavoro la propria, parola perché se è vero che il pubblico di settore non sarà mai fatto di numeri importanti, è altrettanto vero che è un pubblico di qualità e molto affezionato, che ascolta davvero. E questo direi sia l´aspetto cardine di un pò tutta la faccenda, no?  top

 

CHIAMAMI CITTA’
articolo pubblicato sul numero del 13 gennaio 2011 a cura di Carlotta Frenquellucci

Il 6 gennaio è stata la data zero di presentazione di In apnea, il nuovo disco di Giuseppe Righini, cantautore riminese selezionato dal Premio Tenco e dal Mei (Meeting Etichette Indipendenti), il cui talento è stato riconosciuto dall’unanime consenso della critica musicale nazionale, dalle cinque stelle assegnategli da XL di Repubblica, per arrivare ai giudizi positivi del Mucchio Selvaggio o di Rockit. Il secondo album dell’autore riminese, a due anni dall’esordio Spettri Sospetti, sempre pubblicato da Nda press/Interno 4 records, dimostra un’evoluzione brillante verso una moderna canzone d’autore. Incontriamo Righini subito dopo il concerto che ha raccolto nel teatro riminese centinaia di spettatori.

Dopo tre anni di silenzio, qual è stato il percorso che ti ha portato alla realizzazione di questo album?

Da Spettri Sospetti a In Apnea è intercorso un periodo di tre anni in cui mi sono dedicato alla scrittura in modo ludico e ne è scaturito un sacco di materiale. Inizialmente, infatti, l’intenzione era quella di fare un disco doppio su ispirazione di Aguaplano di Paolo Conte, di cui apprezzo l’impianto, ovvero alternare canzoni molto prodotte ad altre nude. Ma poi i tempi tecnici (a novembre scorso la canzone E Mio Padre Se Ne Vola Via è stata inserita nel doppio cd La leva cantautorale degli anni zero che raccoglie 36 nomi del più promettente cantautorato italiano) hanno fatto sì che si operasse una selezione e ciò che è sopravvissuto nel nuovo disco sono le canzoni che coniugano la mia scoperta del cantautorato alla mia antica passione per il “meticciato” musicale e le esperienze più esterofile, soprattutto anglosassoni, che con Spettri avevo messo in standby. Il mio nuovo approccio è pittorico, delicato, femminile: quelle di In Apnea sono canzoni più intime e sentimentali, più nude rispetto al primo disco che nasceva dall’urgenza stringente di raccontare.

Dunque in contrasto con i diciassette racconti che corredano il libretto del disco che sono crudi e disincantati: un’anima bifronte o semplice diversità di linguaggi?

Le parole delle canzoni devono essere musicali per essere ascoltate in melodia, il racconto ha altri codici. Il disco nasce dalla sinergia di un nutrito team di collaboratori. Massimo Marches alle chitarre, Diego Sapignoli alle percussioni, Fulvio Mennella che suona il basso e ha prodotto il disco barcamenandosi nell’elettronica da rigattiere, come ci piace definirla, e Alexa Invrea che ha completamente curato la grafica e impreziosito i racconti presenti nel libretto con il suo codice pittorico che trovo complementare al mio modo di scrivere. Quello che mi piace è che c’è organicità sotto tutti gli aspetti e che coloro che ci hanno messo le mani se le sono anche sporcate.

Sebbene il tuo talento sia stato consacrato a livello nazionale, rispetto agli altri cantautori riminesi le tue presenze sono più centellinate.

Con Rimini ho un rapporto intenso e a tratti irrisolto, come spesso accade con una delle proprie madri. E’ comunque un sentimento di grande amore e affezione, che in passato ho cercato di descrivere in un brano come Porti Aeroporti e Stazioni. Le devo moltissimo, ma in definitiva sono persuaso che il concetto di città – e la relazione con essa – sia qualcosa che vada costruito anche da lontano, a debita distanza. Credo sia una buona maniera per ritrovarsi sinceramente, aver voglia di abbracciarsi ancora e raccontarsi nuove storie.  top